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cultura dell'immagine e della parola

L’educazione sentimentale

L'educazione sentimentale

Il desiderio provocatorio
di Marco Cappellini

Fin dall’inizio

Si spengono le luci. Si accende il proiettore. Dopo i titoli di testa penso a Woody Allen in Io e Annie (Annie Hall, 1977) che si rifiuta di entrare al cinema perché iniziato da due minuti. Osservare gli scarabocchi infantili tracciati sul nero della lavagna, contemplare le immagini sacre (de)idealizzate, spezzate fino a svelare ulteriori corpi, questa volta di “pure” pin-ups. Un ultimo ritaglio: alcune forme astratte con la solita colorazione forte. La mdp indietreggia e ci mostra che ciò che vedevamo era un quadro dello studio (vero e proprio regno di accumulazione oggettistica) di Enrique. I titoli di testa (pre)cedono al film. Allen/Alvy aveva ragione.

Immagine labirintica

Pedro Almodòvar fa del suo film un pastiche, un collage di salti temporali. Lo stesso flashback viene denaturalizzato: ciò che credevamo essere la visualizzazione del racconto La visita, si rivelerà una visione anticipata del film girato da Enrique. Il flashback diventa flashforward. Lo spettatore viene continuamente immerso in un complesso labirinto, creato dalle immagini stesse. Compresenza di passato, presente e futuro (nello studio di Enrique Almodòvar arriva all’autocitazione del prossimo film che dirigerà: La abuela fantasma). Non è la trama a lasciare perplessi: è la dimensione spazio-temporale dell’immagine. Nella seconda parte, quando Padre Manolo (ormai Berenguer) si confessa (contrappasso del prete peccatore) a Enrique, il suo primo piano è usato per passare dal flashback (classico in questo caso) alle immagini che lo precedevano.

Ancora post-moderno

L’immaginario post-moderno almodòvariano non si ferma a questo punto. Non soddisfatto della forte commistione di melodramma e commedia (impossibile non ricordare le similitudini con Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) ecco il noir. Il regista ha riferito: «Come nel noir, mi affascinano i personaggi che accettano il rischio delle passioni, anche quelle proibite…». È proprio questo l’utilizzo che Almodòvar fa del genere: egli mette in luce le parti oscure e nascoste dei personaggi, quel troppo poco visibile che si nasconde dietro un cespuglio, dentro a un cinema, dentro un motel. Niente viene risparmiato, perché, come dice Ignacio a Padre Manolo, «la spazzatura è il rialzo».

Penetrazione almodovariana

Tutto il film è all’insegna della penetrazione. Prima di tutto penetrazione fallica: il sesso è davanti ai nostri occhi e il poco fuoricampo che ci viene concesso probabilmente non poteva essere esplorato per problemi di censura. A questo riguardo, esemplare la mdp che chiude sulla tonaca di Padre Manolo per aprirsi poi ad occhiello sui bambini impegnati nell’esercizio fisico. Poi penetrazione cinematografica: i dettagli sulla pellicola che scorre sugli ingranaggi anticipano la visione metacinematografica. Infine, e ancora una volta, penetrazione nei personaggi. Non solo in Padre Manolo, ma soprattutto in Ignacio, il cui volto di fanciullo viene prima segnato da una goccia di sangue e poi diviso, a svelare una coscienza impregnata dalla figura di Padre Manolo (Ignacio ormai uomo/donna ripeterà alla messa «per tua colpa»).
Ma tutta questa penetrazione, questi forti ritagli, non erano già presenti nei titoli di testa?


Seduzione e colpa: l’educazione sentimentale firmata Almodòvar

di Giuseppe Carrieri

Croci di fiori, liturgia di una maleducazione carnale

I grandi registi ci offrono una traccia evidente che li contraddistingue: quell’invisibile trasparenza artistica di una penna da cui il personale inchiostro colora il foglio della pellicola in un modo che altri, anche volendo, non saprebbero fare.
Pedro Almodòvar è uno di questi. La sua educazione cinematografica ci inoltra in un mondo in cui passione, erotismo, carnalità, rabbia e morte si mescolano sempre con sfumature inedite e la delicatezza dei suoi tocchi producono un’originale eleganza iberica dove nuova Poesia regna sovrana. E soprattutto dove la bellezza del corpo umano, vanamente neoclassica e perfettamente postmoderna, riesce a trovare una rappresentazione visiva e filosofica che non ha pari in altri registi della nostra contemporaneità.
Anche in quest’ultimo film è il Corpo ad indirizzare le vite dei protagonisti, a segnare il loro cammino nel bene e nel male, nella libertà e nell’oppressione, nell’espiazione e nel peccato. La prima volta che lo spettatore scorge il personaggio di Ignacio, lo fa attraverso un’infinita panoramica verticale sul suo corpo, mostrandocelo nella sua grandezza ed artificialità che però presto si tramuta in seduzione e maliziosa libertà.
La nudità più volte frequente nel film e atto necessario dello stile almodòvariano, manifesta soprattutto questa senso di purezza originale in cui due anime possono e riescono a ritrovarsi. Ed è così, in un libertino e liberatorio amplesso, che Enrique ed Ignacio si rincontrano “nel film del film”. Ma la poesia di Almodòvar ci mostra ciò anche attraverso la leggerezza infantile di un corpo svestito quando si appresta ad un acrobatico salto in acqua. E ancora nell’ incontro in piscina, nella vera realtà, tra Enrique e Juan, in cui quest’ultimo si rifiuta di svestirsi del tutto proprio perché, così facendo, attraverso la sua intimità, la sua nudità, svelerebbe la sua anima di mentitore, di sosia. In lui si intravedrà solo della peluria pubica, nient’altro. Il corpo è coperto perché macchiato dalla colpa e per questo non può svelare la sua essenza.
Proprio questa essenza, col proprio oscurantismo religioso, la cattiva educazione psicotica del collegio religioso sembra voler punire, crocifiggendo (la presenza iconografica della croce è praticamente ovunque) quei corpi ancora in fiore e rinchiudendoli nella catena di un’oscurità ancora più pesta, quella della paura della propria corporalità e della repulsione verso un naturale edonismo.
Ecco che Enrique (che si definisce appunto un non credente, bensì un edonista) e Ignacio temono, con la loro masturbazione reciproca in una proiezione cinematografica, di sfidare Dio. Ecco che quella rigida ginnastica di corpi appare vuota e punitiva (si basti vedere dopo come Juan faccia delle flessioni mimando molto esplicitamente l’atto sessuale).
Tutta questa cattiva educazione si identifica nel corpo dello stesso padre Manolo, nel suo spogliarsi in sagrestia con il piccolo Ignacio: i suoi tanti abiti che lo rendono prigioniero della sua stessa fisicità e le sue movenze inceppate si oppongono alla sfrenatezza successiva del suo corpo di quando ormai laico e diventato Sign. Berenguer fa l’amore con Juan. Quell’ «hoc est enim corpus meum» liturgico che sigilla proprio il sacrificio carnale del Cristo riecheggia paradossalmente quasi come maledizione e bestemmia di un destino che gli ha imposto l’ipocrisia di quel corpo. Non può che nascere così la tentazione della seduzione su quel ragazzino che invece era finalmente riuscito a scoprire la Verità, non quella teologica, ma quella Carnale.

Come spoglie di verità: il cinema, perdutamente

In quest’ultima opera di Almodòvar la riflessione meta-cinematografica è del tutto evidente ma il suo esplicitarsi è particolare e quanto mai affascinante. Il cinema è in crisi d’idee – Enrique lo dimostra – e va alla ricerca di squallida cronaca per trovare l’originalità ed ha un corpo ostile a se stesso. Quel cinema Olimpo dei ricordi, diventato rudere, è un perfetto correlativo oggettivo, in tal senso. Quei manifesti in cui resti d’immagini, come ultime e remote spoglie di verità si intravedono ancora sono un’ultima fioca luce in cui l’oggi del cinema si specchia. Ed è pur sempre nel passato che questo “perduto” cinema ritrova la sua anima primigenia e dà anche il senso, il nesso delle cose ai suoi personaggi. È L’angelo del male (La bete humaine, Jean Renoir, 1938) a dare la rivelazione a padre Manolo/signor Berenguer che tutto intorno parla della sua storia furtiva con Juan.
È l’epifania della perdizione che il nostro cinema perduto riesce ancora a dare.


Appunti visivi

di Francesca Arceri

Fra le tante facce che mostra questo film, ce n’è una che riemerge ossessiva: tutta la pellicola è un dichiarato omaggio al thriller e al noir. Si parte dai titoli di testa: originali e di impatto, come sempre in Almodòvar, ma più si osservano e più sembra di averli già visti. Poi la colonna sonora smaschera la fonte. Un tappeto di archi che si accaniscono sui toni acuti: pungente, snervante. Psycho. Saul Bass, un grandissimo che lavorò spesso con Hitchcock, ideò i titoli di testa del film del 1960 e il grande compositore Bernard Hermann ne scrisse la musica. Nacque così un piccolo capolavoro grafico, che Almodòvar omaggia riecheggiando lo stile con archi e movimenti orizzontali delle scritte, che si sostituiscono l’un l’altra attraverso degli strappi che nel movimento ricordano il modo in cui apparivano quellli di Psycho. Per non parlare poi del fatto che come nel film di Hitchcock, appena finiti i titoli compare un’indicazione di luogo e tempo. Un’abitudine presente non solo nel cinema del maestro inglese, ma quasi un must del genere noir e del thriller. La precisazione temporale e spaziale è fondamentale per narrare intrecci di questo tipo, aumenta il coivolgimento nella narrazione, la rende più realistica e fornisce degli indizi.
Insomma, a pochi minuti dall’inizio, ci troviamo di fronte a una dichiarazione: quello che vedrete è un omaggio al film noir.
Nonostante l’esplosione di colori, che è una specie di biglietto da visita del regista spagnolo, e la rinuncia a una fotografia contrastata e a inquadrature di taglio o dal basso (per un’idea di stile neo noir si veda L’uomo che non c’era, Cohen, 2001), il film ripercorre tutti gli stilemi del genere: uno dei protagonisti è un doppio che nasconde la propria identità, si raccontano abissi sentimentale e emozionali, torbide relazioni e intrighi passionali, l’omicidio, l’uso centrale del flash back e della narrazione a scatole cinesi, il voluto disorientamento dello spettatore, l’impossibilità di raccontare un’unica verità data dai molteplici punti di vista, la ripresa in tutta la colonna sonora dell’accompagnamento tipico dell’epoca d’oro del film noir. Condito, avvolto e impacchettato in un saggio sulla narrazione e sul cinema.
Forse l’ultima fatica di Almodòvar non convince fino in fondo, (troppo confusionario, sembra paradossalmente meno sentito, meno equilibrato) ma di certo la sua arte resta di altissimo livello.

Curiosità:

Il film ha alcuni aspetti autobiografici. La parte dell’infanzia dei protagonisti è attinta da esperienze dirette e indirette vissute dal regista. Ignacio, consegnando il suo racconto La visita al regista Enrique gli dice che la prima parte è vera mentre sono inventati gli eventi vissuti dai personaggi adulti. Questa può essere considerata come una battuta direttamente rivolta al pubblico: la prima parte sull’infanzia è vera mentre il resto è inventato. Fra l’altro Enrique, il regista, è chiaramente un alterego di Almodòvar. Come lui ritaglia i giornali cercando fra la cronaca storie di vita a cui ispirarsi. Come lui, viene detto dalle didascalie alla fine, continuerà a girare film con la stessa passione.

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