Il cinema nel cinema
Piccioni affonda nuovamente la cinepresa nell’interiorità umana, questa volta sfruttando l’abusato sottogenere del cinema nel cinema. La conseguenza della scelta è quella di raddoppiare la porzione di materiale da servire allo spettatore e potenziare esageratamente la profondità della lente con cui il suo sguardo cerca di penetrare la realtà. L’impressione è quindi quella di voler lanciare uno sguardo il più possibile veritiero sugli ingranaggi della macchina dei sogni di celluloide e sui suoi protagonisti. In realtà l’ottica sfruttata non può che risultare piena di deformazioni e sentimentalismi, con il suo plateale e viscerale amore per il fascino da sfinge della Ceccarelli, già sottolineato nel precedente film Luce dei miei occhi (2001), intepretato dagli stessi attori.
Raccontando la storia degli interpreti professionisti Laura e Stefano e intrecciandola con le vicende dei personaggi del film che stanno girando, Eleonora e Federico, Piccioni rischia di sbattere frontalmente con il genio di François Truffaut (Effetto Notte, 1973) e Karel Reisz (La donna del tenente francese, 1981). Il cinema che riflette su se stesso ha una storia gloriosa e ingombrante che rischia di soverchiare l’ultima fatica di Piccioni e farla sembrare l’ennesima “imitazione” da annoverare nel genere che ha avuto tra i suoi più grandi esponenti film di diverso spessore come Otto e Mezzo (1963) di Fellini, Viale del tramonto (Sunset Blvd. , 1950) di Wilder, Hollywood Ending (2002) di Allen e moltissimi altri. Ma l’aspetto che più sferraglia in una pellicola che mette troppa carne al fuoco è il continuo scontro tra il registro tipico della commedia e quello del melodramma, con il risultato di non rendere giustizia al cinema stesso più che alle idiosincrasie della vita, sostanzialmente affrontate con grande impegno introspettivo del regista.
Link correlati:
• Intervista a Giuseppe Piccioni
A cura di Fabio Falzone
in sala ::