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Intervista a Paolo Sorrentino

Il registaCome hai scelto il soggetto del tuo film?
In parte è la prosecuzione del mio film precedente, L’uomo in più, in parte mi piace fare film su cose che non conosco. In questo caso la Svizzera, la mafia, la finanza. Diciamo che girando per alberghi sono rimasto affascinato dalla presenza di uomini d’affari stranamente oziosi e ho voluto fantasticare.

Come ti sei documentato?
Scegliendo di occuparmi di ambienti che non avevo mai approfondito ho dovuto faticare per documentarmi. La mafia poi non è un fenomeno per cui basta fare due domande in giro… faccio un solo esempio: ho tentato per mesi di conoscere un direttore di banca svizzero e non ci sono riuscito. Alla fine ho lasciato stare le indagini e mi sono affidato molto all’immaginazione.

Anche con la mafia?
Per quella mi sono rifatto alle intercettazioni giudiziarie usate anche per il la serie del Commissario Ultimo. E’ incredibile come questi criminali si lascino andare in discussioni riguardanti la musica, la lirica, il cinema. Veramente inaspettato, una sorpresa. C’è da dire poi che la mafia italiana è sempre stata sottovalutata, dal cinema soprattutto, rispetto alla enorme quantità di materiale disponibile sul crimine in america. Basta documentarsi per scoprire che l’intera mafia americana era al servizio di quella siciliana, di una piccola isola! Insomma un fenomeno importante, un peccato non parlarne.

Hai fatto un film denso di sentimenti, esaltati tra l’altro dai ritmi lenti e tarati a perfezione sugli stati d’animo del protagonista. Cosa importa veramente?
Guardando la fine del film ci si rende conto che a prevalere è il sentimento dell’amicizia, ancora più che l’amore. Un tributo dovuto anche nel caso di un’amicizia idealizzata, non affievolitasi nemmeno in 20 anni di lontananza, di alienazione. Il protagonista è un bugiardo, la verità che vive è noiosa e allora inventa, si lascia trasportare dall’immaginazione, cambia col tempo. Ma certe cose restano.

Ancora un personaggio tutto sommato negativo, un perdente. Ne sei affascinato?
E’ innegabile che i personaggi negativi siano più interessanti rispetto a mettere in scena un blocco monolitico di positività. Il 900 ha portato con sé una visione della vita pessimistica, si è persa la speranza…

Il suono sembra avere un ruolo preponderante: rumori molto accentuati di soldi contati e cerniere che si chiudono. Un ruolo di primo piano?
Un ruolo molto importante che è stato valorizzato dal lungo tempo che gli abbiamo dedicato in post–produzione. E’ una fase che spesso si affronta in fretta, io ho voluto prendere tutto il tempo necessario per curare questo aspetto: improvvise deflagrazioni sonore dopo lunghi silenzi, falsare il rumore di una cerniera o di un colpo di pistola sono elementi utilissimi che mi hanno consentito di scandire il tempo.

I tuoi film hanno una stile personale, riconoscibile, non facilmente classificabile. Ti è capitato di ispirarti a qualche regista, sceneggiatore o scrittore in particolare?
E’ vero, non mi ritengo inquadrato in una corrente o in uno stile particolare. Posso dire di apprezzare molto il cinema USA anni 70, quello indipendente e quello francese e di essere un fan di Scorsese, Coppola. L’Italia invece promette molto bene con giovani come Garrone, Martone. Oggi non si fa più autobiografismo, ma c’è una grande prova di passione, di tecnica. Un ritorno del nostro cinema.

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