De profundis
di Fabio Falzone ********
Il cinema di Vincenzo Marra somiglia all’effetto irreversibile e devastante di una covata radioattiva nell’organismo. Ferisce nel profondo dell’animo ma lo fa gradualmente, spandendo al ralenti piccoli malori che si nutrono della speranza fino a diventare metastasi. La spietatezza visiva è quella di un regista fortemente debitore alla grammatica neo realista italiana. Fa male, ma ti fa aprire gli occhi dal dolore e sul dolore.
Lo stile diretto ed essenziale riesce a ricreare dentro uno scarno documento di vita, una poetica ancora capace di sconvolgere e far riflettere moralmente, senza il sostegno scomodo di manifesti ideologici, religiosi o moralistici, e facendo anzi della povertà dei mezzi e la purezza del messaggio, il proprio unico vessillo.
La storia ci porta ad atmosfere lontane nell’immaginario cinematografico, ci trascina nei drammi della migrazione, ammiccando a Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, Italia-Francia, 1960), traendo la sua forza disperata da sentimenti umani primari strappati alle storie di ordinaria sofferenza e recitate da attori non professionisti pescati dalle periferie partenopee.
Su tutto, il regista ha il buon senso di girare un film fuori dalle tendenze del momento, senza ricorrere alla muscolarità di slanci religiosi (come scrive Osvaldo Contenti nella sua recensione di Nel mio amore di Susanna Tamaro) o la retorica priva di sfumature di The land of plenty (Wim Wenders, USA, 2004). Marra ripulisce infatti il testo da tutta la polpa in eccesso, a partire dalla trama stessa (che il montaggio di Benedetti ci fa solo intuire con sapienti ellissi, spingendo lo spettatore a riempire i buchi del non detto) e divenendo nel contempo anonima e universale ma senza forzature. Infine raschia via, polverizzandoli, sentimentalismi sgocciolanti che potrebbero attaccarsi come mosche ai residui fissati a uno scheletro poetico e narrativo che ormai biancheggia come l’avorio. A immortalare tutto ci pensa Mario Amura, con la sua fotografia densamente luminosa, satura fino ad abbagliare.
In sala, per qualche attimo, durante i titoli di coda si sparge una sola urgenza comunicativa che esala un odore acre ma sincero, puro: l’essere umano nel suo distillato più ricco di significato, il dolore.
Prigionieri del neorealismo
di Raffaele Elia *****
Un film di sincero impegno e un intento lodevole vanificati dalla rigida scelta del rigore neorealista che purtroppo si rivela una insuperabile prigione stilistica. La storia procede a fatica con scene ripetute e già ampiamente viste sullo schermo come le corse in motorino di Enzo e la mancanza di una sceneggiatura solida come quelle che scriveva Cesare Zavattini è molto di più di una sensazione. La “sottrazione” narrativa crea pause ingiustificate non adeguatamente colmate da immagini toccanti e liriche come nel bellissimo “Tornando a casa (dello stesso autore, 2001) premiato al Festival di Venezia. Appare, poi, eccessivo aggiungere, al già estremamente ricco elenco delle sfortune della famiglia del ragazzo, anche il dramma dell’uranio impoverito! Gli attori, tutti non professionisti ad eccezione Francesco Giuffrida*, non si rivelano all’altezza, la loro recitazione risulta sottolineata e priva di ogni naturalezza non certo aiutata da dialoghi poco brillanti che sembrano tratti da una fiction sociale televisiva. Tutto questo impedisce, nonostante la predisposizione favorevole, di entrare nel dolore dei protagonisti e di lasciarsi coinvolgere a fondo dalla loro dignità come meriterebbe l’argomento trattato.
* interprete, tra l’altro, nel 1998 di Così ridevano di Gianni Amelio, nel 2000 de I cento passi di Marco Tullio Giordana e in tv della serie Carabinieri.
A cura di Fabio Falzone
in sala ::