Fantasie perdute
un albergo qualunque di una Lugano deserta vive in esilio dal suo passato Titta Di Girolamo (Toni Servillo). L’uomo siede ogni giorno nel solito posto vicino alla finestra, si droga di eroina da 24 anni, fuma continuamente, soffre d’insonnia, non parla mai con nessuno ed è orgoglioso di essere un uomo privo di fantasia. Appena si “lascia andare” subirà le conseguenze dell’amore e, liberando l’immaginazione, entrerà in un tunnel autodistruttivo di amore e morte. Accanto al bravissimo Servillo, in gara per la palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, vivono alcuni curiosi personaggi tra cui un’anziana coppia che vive in una stanza dell’albergo, un tempo di loro proprietà; l’uomo, un decadente ex giocatore d’azzardo, è interpretato da un grande Raffaele Pisu la cui recitazione rende un delicato omaggio a Vittorio De Sica. Meno riusciti i personaggi interpretati da Adriano Giannini (figlio di Giancarlo), estraneo all’atmosfera generale, e da Olivia Magnani (nipote di Anna). Tutti gli ospiti sembrano imprigionati in una dimensione che Sorrentino, citando il sociologo Marc Augé, definisce un non-luogo, assimilabile ad aeroporti o stazioni, dove tutto, apparendo indistinto e impersonale, diventa un solitario rifugio dei fallimenti esistenziali.
I due volti della mafia
I mafiosi sono presentati come caricature in diverse scene tra cui quella che si svolge in un altro non-luogo, il salone vuoto dell’Hotel Europa, dove è in corso un convegno sulla ipertrofia della prostata! e la loro gestualità ricorda quella dei malavitosi italo-americani di Jim Jarmush in Ghost dog (id., 1999) o di John Huston ne L’onore dei Prizzi (Prizzi’s Honor, 1985). La sceneggiatura, però, mette a fuoco anche la logica criminosa della mafia, fredda e riservata come la Svizzera dove tutto accade in interni regolato dallo strisciante potere del denaro.
Uno stile riconoscibile
Il Sorrentino sceneggiatore conferma la capacità e il piacere di scrivere storie originali con pochi punti deboli quali ci sembrano la non convincente “vicenda” d’amore e alcuni monologhi del protagonista, la cui cinica ironia risulta a volte compiaciuta nonostante il carisma di Servillo. La regia molto ricercata, attraverso immagini nitide e colori definiti, descrive l’atmosfera di fredda immobilità senza rinunciare a virtuosismi come quando la mdp sale e gira con movimento a spirale attorno al corpo di Titta appena dopo il “buco”. Molto curata la colonna sonora che varia da brani di musica sinfonica a Ornella Vanoni e il sonoro dominato dal fruscio dei soldi. Un film dal gusto molto francese, un ritmo volutamente lento come il tempo soggettivo del protagonista, un personaggio simenoniano che piacerebbe a Patrice Leconte* e un montaggio raffinato e chirurgico che mette in scena un intrigante microuniverso dove si incontrano fredde atmosfere mitteleuropee e cattiverie mediterranee.
Curiosità:
L’ispirazione del film è venuta a Sorrentino durante un viaggio in Sud America «in un hotel con un bar tutto di legno, molto atipico per il Brasile: fuori c’erano 50 gradi, dentro era Tirolo. Gli uomini che erano seduti lì mi incuriosivano e allo stesso tempo mi disorientavano, perché non avrei saputo dire da dove venivano, se avevano famiglia, se trattavano affari loschi o erano normalissimi manager».
Per distinguere visivamente il personaggio di Titta da quello di Antonio de L’uomo in più (2001), entrambi interpretati da Servillo, il regista aveva pensato all’aggiunta della barba ma, accogliendo il suggerimento dello stesso attore, ha optato per quella degli occhiali.
* Cineasta parigino autore, tra l’altro, de L’insolito caso di Mr Hire (1989), Il marito della parrucchiera (1990) e L’uomo del treno (2002)
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• Vai all’intervista a Paolo Sorrentino
A cura di Raffaele Elia
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