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Quell’ultimo metrò

Quell’ultimo metrò

John Woo ci aveva insegnato a non valutare una scena d’azione contando quanti proiettili uscivano dal caricatore di una pistola, ma apprezzando la coreografia delle sparatorie più affollate. In The Killer (Die xue shuang xiong, 1989) il (super)uomo protagonista debellava interi plotoni di nemici con una pistola semiautomatica, allora si gridò al capolavoro. Recentemente Uma Thurman ha dimostrato come con un’unica katana possa abbatere interamente la banda degli “88 folli” grazie a Quentin Tarantino ma soprattutto al coreografo Woo-ping Yuen.

La metropolitana di Tube invece si ferma invece ad una stazione imprevista, quella della parodia involontaria, in cui si riconoscono i modelli di base (Speed, Jan de Bont, 1994, su tutti) sebbene riattualizzati alla salsa di soia. Il sorriso appare inconsciamente sul volto degli spettatori nei momenti di che dovrebbero ottenere maggior tensione, facendo crollare ogni genere di climax drammatico. Scritto ad otto mani, Tube stupisce per l’ingenuità della sua trama, per le eccessive semplificazioni narrative effettuate in sceneggiatura, per i personaggi stereotipati rifiniti con l’accetta e per le situazioni eccessivamente canoniche anche per un film dichiaratamente di genere. L’apice si tocca nello scontro finale tra buono e cattivo, dove una pistola viene scaricata pur di terminare il duello all’arma bianca, fine assai più nobile per il predestinato a morire (non preoccupatevi, non è il vero finale, vi toccano almeno altri venti minuti buoni!).

Tube è l’ennesimo film che dimostra il processo di alienazione/abduzione che i popoli dell’estremo oriente provano dei confronti dei mezzi tecnologici. Gli attentati al gas nervino della metropolitana di Tokio hanno segnato le coscienze collettive e gli autori di Tube giocano su questi timori. Peccato la lezione dell’11 settembre non sia stata recepita, non bastano più due supercriminali a terrorizzare un’intera città, ne serve un piccolo esercito ben addestrato. Questo elemento contribuisce enormemente alla risibile inverosimilità della pellicola, che vorrebbe destabilizzare lo spettatore (e fruitore dei servizi della metropolitana) mentre ottiene ben altri risultati.
Abduzione invece da altre forme di tecnologia, ovvero attaccamento eccessivo, quasi morboso, come per il caso del cellulare (qui veniamo a conoscenza del fatto che nelle metropolitane coreane è possibile ricevere ed effettuare telefonate direttamente dal treno) strumento che salva la vita, differenza di The Ring (Ringu, Hideo Nakata, 1998) e Phone (id., Byeong-ki Ahn, 2002), ma che la abbruttisce (come nel caso della coppia con il cellulare che prevede una suoneria ogni mezz’ora per ricordare di pensarsi vicendevolmente!). Peccato perché tecnicamente il film non è niente male…

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