L’alba del giorno dopo
Ci sono tre storie a fumetti in questo volume. La prima è Bucatini e pallottole una versione rivista e corretta di Fango. Vivere e morire al prenestino (pubblicato in Fango, Mondadori, 1996); la seconda è tratta dal racconto Fa un po’ male (Micromega, 2002) e la terza da L’ultimo capodanno dell’umanità (sempre in Fango).
Ci aspettavamo da tempo un’operazione del genere: c’è sempre stato un feeling fra Ammaniti e il cinema, i suoi testi erano visivi, cinematografici per natura. Quindi niente di strano nel vederli tradotti in fumetti, preludio delle riprese (in forma di story-board) e linguaggio a metà strada fra immagine e parola. Eravamo curiosi, noi lettori, ansiosi di trovare una nuova forma alle immagini grottesche e spiazzanti della fantasia dello scrittore “cannibale”. E siamo stati esauditi. Anche grazie al contributo di Daniele Brolli (che per Einaudi curò l’antologia Gioventù cannibale, 1996), per l’adattamento, e alla matita di Davide Fabbri.
Bucatini e pallottole
Questo fumetto apparve a puntate su “L’Unità” ed era un soggetto per un film che nessuno voleva produrre. Lo scrittore ci aveva lavorato insieme a Giorgio Tirabassi (attore del film L’ultimo capodanno, Marco Risi, 1998) e poi Daniele Brolli ha dato l’ultimo tocco dandogli la forma che ha oggi.
La storia è più ricca di intrecci del racconto d’origine. Come al solito, Ammaniti adora giocare coi suoi personaggi come fossero pedine, vittime di una strategia indecifrabile finchè non è compiuta. Tutti hanno una caratterizzazione peculiare, che si materializza sempre grazie al dettaglio: il Giaguaro, grasso, basso, boss “romanaccio”, spietato, alla mattina gli piace mettere i piedi sulla moquette a pelo alto; Selvaggia, la donna di Albertino, vuole una vita normale e pensa solo alla scelta delle maioliche per il bagno mentre il nostro è nei guai fino al collo; Federica, la figlia del Giaguaro, deve sposarsi contro la sua volontà con un albanese e tutto quello che desidera davvero è andare al rave di Berlino “che c’è pure dj Shadow”; lo zio Antonio, basso, grasso e pelato, boss avversario del Giaguaro, ha fatto uno scambio culturale con la Yakuza ed è diventato un ninja di primo livello; e tutta una serie di personaggi di contorno così eccentrici ed estremi che basta mischiare tutti questi elementi con una ricetta di imprevisti e grottesco per riprodurre l’alchimia della narrativa di Ammaniti. Il ritmo è incalzante e tutti i fili procedono verso un finale parossistico degno appunto del Niccolò di Fango e del L’ultimo capodanno dell’umanità.
Fa un po’ male
Sicuramente il migliore dei tre. Forse anche perchè il racconto si presta: una sequenza calibrata di azioni, dosate coi ritmi giusti. Davvero un gioiello, che effettivamente aveva tutte le carte in regola per diventare un fumetto. Anzitutto l’intreccio è concentrato su un solo protagonista e sull’unità di tempo, avviene tutto in una notte. Mantenendo la ricetta dell’accostamento di figure grottesche eppure realistiche e creando situazioni al limite, riesce a strapparci una risata mentre rabbrividiamo, spettatori distaccati di vicende sempre ambientate nell’orrore del quotidiano. Robbi, il protagonista, in fondo è uno come chiunque di noi: tutto quello che voleva era un pompino. Da questo innocente desiderio si innesca un vortice fatale che trasformerà una serata in bianco nel peggiore dei nostri incubi. Ma quello che avvince e fa scuotere la testa dicendo “ci sa fare questo ragazzo!” è proprio la sua attenzione per il dettaglio. Ogni personaggio “di contorno” vale tutto il racconto. Che dire di Angela, detta l’idrovora per la sua passione per la fellatio o del Tenaglia, un grasso sfigato che si masturba guardando Lorella Cuccarini? Che dire dei tre fratelli Franceschin? Tre enormi fascitoidi che non sopportano “li froci” e li puniscono facendosi fare una bella fellatio (pratica che fa da leit motiv della storia).
Altra chicca va ricercata nella musica che accompagna la narrazione. Nei suoi libri è facile imbatterisi in canzoni che cita (col titolo o col testo), e anche qui non mancano. Anzi la musica è fondamentale in questa storia. Si pensi al ruolo riservato ai Supertramp, o al contrasto generato dalla canzone “Aria” di Marcella Bella ascoltata nell’auto dei tre fratelli, mentre minacciano il protagonista. Un elemento costante, un ingrediente di base nella tecnica narrativa di Ammaniti che connota, attraverso la musica, personaggi e situazioni, esacerbando il grattesco e lo squallore.
L’ultimo capodanno dell’umanità
Certamente il più deludente. In pratica è lo story board del film realizzato con Marco Risi, L’ultimo capodanno (infatti nei credits compare anche lui). Riporta la stessa sceneggiatura e quindi gli stessi tagli e modifiche (discutibili) alla storia che fecero per la pellicola. Ad esempio nel finale, l’unico a sopravvivere è Ossa mentre nell’originale era l’aspirante suicida, bruciando così il paradosso per cui tutti muoiono e si salva l’unica che voleva morire. Ma mettiamo pure che lo stesso Ammaniti abbia preferito la versione raccontata dal film, non si capisce perchè ci si sia appiattiti a raffigurare ambienti e personaggi ricalcando quelli della pellicola. Insomma, poteva essere una buona occasione per dare volti diversi, approfittare del nuovo linguaggio per mettere in gioco le mille possibilità che il lavoro di Ammaniti innesca. Dà un certo fastidio vedersi riproposto un piatto riscaldato, ed è deludente ritrovare di nuovo le facce della Bellucci, Haber, Santamaria, la Zanicchi e tutto il parco attori del film di Risi, che francamente non era riuscito. Peccato.
La mano di Davide Fabbri
Davide Fabbri, il disegnatore di punta delle serie dedicate a Star Wars, edite dalla Dark Horse, ha una mano pulita e un segno incisivo. I suoi disegni sono dettagliati senza essere sovraccarichi, e, come la scrittura di Ammaniti, sa cogliere l’essenziale. Si potrebbe obiettare che è “troppo pulito” e che forse queste storie necessitavano un’atmosfera meno nitida. Ma nella sua complessità funziona.
La pagina è dinamica e le vignette si allungano, si moltiplicano, si incastrano. Il disegno esce dai confini oppure li annulla. Forse, però, si avverte un’eccessiva concentrazione. Le tavole accolgono molte inquadrature che vengono sacrificate in ampiezza della resa del volume. Si sente, insomma, la necessità di apertura, di maggior superficie: Fabbri non concede mai una pagina intera a una o due vignette. Sarà per il desiderio di non enfatizzare troppo o per la necessità di condensare un ampio numero di azioni in una ristretta quantità di pagine. Sarà. Ma qualche pagina come la copertina avrebbe fatto il suo effetto.
A cura di Francesca Arceri
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