È solo una questione d’amore
Nel 2021 il mondo non sarà tanto diverso da oggi. Nessuna iper tecnologia cambierà l’orizzonte della nostra quotidianeità. Saranno solo più visibili le conseguenze della direzione che il pianeta ha imboccato. Nevicherà a luglio, improvvise glaciazioni distruggeranno le risorse, tutto si gelerà improvvisamente, quindi dovremo stare attenti, ci dice il notiziario, a svuotare i bicchieri e mettere l’antigelo nello scarico. E a non sostare troppo nelle piscine a costo di rimanerci congelati dentro. Il mondo si sta raffreddando e nell’immaginario di Vinterberg non è solo una questione climatica. Strani fenomeni accadono in coincidenza di queste mutazioni: in Uganda la popolazione prende letteralmente il volo, come se fosse piena d’elio e l’unica soluzione sembra quella di ancorarli al terreno con delle funi. Gli aiuti non arrivano e la gente vola, come alleggerita del peso dell’anima, come svuotata dalla corporeità dei sentimenti.
Non solo.
Il nostro protagonista (Joaquin Phoenix) arriva in aereo (così si apre il film e ritorna spesso, immagine insistita, l’aereo e il volo) a New York, dove sembra normale imbattersi in cadaveri abbandonati a terra: sulle scale mobili, in metropolitana, sui marciapiedi. La gente semplicemente li ignora, li scavalca, quando non li deruba come avvoltoi. “È colpa del cuore” ci informa uno degli accompagnatori di John “sta diventando sempre più debole e cede per un nulla, ti senti come un morso, una fitta di angoscia e si spezza”. È la mancanza d’amore, l’indifferenza reciproca che spezza i cuori e ci impedisce di sopravvivere, di superare gli ostacoli del futuro.
John ed Elena (Claire Danes) si sono separati da più di un anno e adesso stanno per divorziare, ma Elena sente di amarlo ancora e soprattutto ha bisogno di lui per uscire dalla morsa invisibile che la sta uccidendo. Come nel ben più riuscito Festen, la famiglia ha un che di disumano, una natura diabolica e algida, che distrugge qualsiasi forma di sentimento ai fini del lucro e del potere. Anche qui la protagonista è vittima dei suoi stessi familiari che vogliono sfruttare il suo successo all’infinito (è la pattinatrice migliore del mondo). Elena soffre di cuore, forse anche per la fine del rapporto con John, e ormai deve essere sostituita se si vuole portare avanti l’azienda. Per questo il padre decide di clonarla facendone tre copie, che prenderanno il suo posto quando lei non potrà più pattinare. Dopo che sarà ultimata la preparazione dei cloni, Elena verrà eliminata come superflua. Significativa l’inquadratura della boccia di vetro con la neve in cui è rinchiusa (prigioniera) una pattinatrice in rosa (stesso costume che indosserà Elena). Un oggetto seriale, riproducibile e rimpiazzabile, metafora della condizione del personaggio e dell’individuo. Anche qui un padre-mostro come in Festen, anche qui nessun altro familiare degno di tal nome attorno ai protagonisti: anche il fratello di lei si rivelerà meschino e senza cuore.
Insomma, sembra essere arrivati a un punto di non ritorno, di devastazione intima e globale, senza via di scampo. Eppure una strada c’è: finchè c’è amore c’è speranza, non si dice così? Ce lo ricorda il fratello di John, Marciello (Sean Penn), che dopo aver superato la paura dell’aereo, adesso non può più farne a meno. Così dalla sua posizione sopraelevata, dall’alto dei cieli, riflette sul mondo e gli uomini e arriva alla conclusione che solo l’amore può vincere questo degrado, anzi che solo loro due possono salvare il mondo, amadosi. L’amore può vincere la morte, ci dice, le forze del destino sono più forti di qualunque altra cosa. Peccato che mentre lo dica i nostri protagonisti muoiano, perduti in un paesaggio asettico e silenzioso, coperti da una coltre di neve.
Questa storia surreale è costruita non più secondo i canoni del Dogma 95 (cinepresa a mano, luci naturali, ripresa diretta, niente trucchi ecc.), ma seguendo lo stile della Hollywood più classica. Patinato, dai colori spenti, cupi, ricorda i thriller anni 50, con la sua rappresentazione retro, stile Art Deco. Molto da lontano evoca un certo Hitchcock, quello di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), anche se non sono assolutamente avvicinabili. Tutto si svolge in spazi chiusi (a parte la sequenza finale), spesso ricorrono i corridoi o lo scafo lungo e stretto dell’aereo. C’è poca luce e i colori sono freddi, polarizzati. Le inqadrature sono oblique, oscillanti, fuori fuoco. Tutto sembra sospeso, tutto sa di fiori marci congelati. Sembrerebbe un bel film, ben fatto, eppure corre su un sottile confine fra esercizio intellettuale e ridicolo, oscillando appunto da una parte all’altra senza soluzione di continuità. Forse l’attenzione per la forma ha fatto perdere di vista lo sviluppo della storia.
Curiosità
E’ stato tra i film più attesi degli ultimi anni a tutti i festival internazionali. Ma Vinterberg ne rimandava sempre la proiezione. Un primo montaggio del film risultò talmente disastroso, che si dovette ricominciare da capo. Finalmente nel 2003 è uscito nelle sale, ma è stato stroncato quasi all’unanimità dalla critica internazionale. Oggi a distanza di più di un anno arriva nei cinema italiani e per di più in piena estate, cioè nella stagione dei saldi cinematografici.
La storia ambientata a New York è girata a Copenaghen e in Svezia.
Altre regie:
Sidste omgang (Last Round, 1993)
Drengen der gik baglæns (The Boy Who Walked Backwards, 1994)
De Største helte (The Biggest Heroes, 1996)
Festen (1998)
The Third Lie (2000)
D-DAG (2000)
It’s All About Love (Le forze del destino, 2003)
Dear Wendy (in post produzione, 2004)
A cura di Francesca Arceri
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