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Identità perdute

Identità perdute

Stéphanie in una vita lontana era Pierre. Oggi è una prostituta transessuale la cui vita si intreccia quasi casualmente con quella di altri due uomini, soli come lei, per le strade di Parigi. Questi personaggi sembrano abbandonarsi a una lunga caduta, un volo a occhi chiusi nella speranza di raggiungere certezze che il mondo che li circonda non sa dare. L’istinto viscerale che domina la loro vita sessuale li chiude in una gabbia senza serrature: prostituirsi sembra essere l’unico modo per affermare una libertà e un’identità che, però, continuano a sfumare nei contorni, lasciando alla coscienza solo un terribile senso di abbandono e di frustrazione.

Inquietudine, solitudine e amarezza. Gli occhi di Stéphanie sono come laghi invernali senza un orizzonte in cui sperare. In occasione della malattia della madre, si troverà ad oscillare fra passato e presente, il paesino d’origine e Parigi, il desiderio di legami profondi e la prostituzione. Riemergeranno i ricordi di un’infanzia innocente e integrata nel piccolo mondo antico dove tutto era coeso e privo di evidenti fratture. Anche per un bambino che vuol essere femmina. Immagini incastonate nel flusso di un quotidiano crudo e vissuto al limite, dove non è ammesso farsi domande o guardarsi indietro.

Ogni personaggio viene introdotto seguendo il proprio percorso solitario che li ha portati ad unire le loro strade: un pugile russo disertore, un marchettaro magrebbino e un transessuale si troveranno ad essere gli elementi di un triangolo unico e prezioso, zattera nel mare di desolazione. Sembra quasi costituirsi una nuova famiglia, modellata su bisogni e desideri non convenzionali, ma sempre frutto e sorgente d’amore. È un continuo alternarsi di momenti di sesso mercenario, ineluttabile modo d’essere eppure buco nero delle emozioni, e di intimità dolci in cui ci si ama sorridendo. Solo in questo modo sembrano riuscire ad andare avanti i tre protagonisti: la morte e la vita sono sopportabili grazie all’amore, purchè sia quello davvero capace di nutrire la nostra natura più autentica.

Sébastien Lifschitz costruisce attentamente il piano narrativo, intrecciando i tempi e la cronologia, mentre si affida a un discorso semplice e intenso dal ritmo disteso, in cui il silenzio diventa espressione dell’incomunicabile. Questo film, che ha aperto il 18° Festival internazionale di cinema gaylesbico e queer culture di Milano, racconta molto di più di una realtà border line: lo stesso Lifschitz, in conferenza stampa, ha sottolineato l’importanza del tema della ricerca dell’identità, non a caso la canzone che fa da sottofondo ai titoli di testa recita “Are you a boy or a girl?”, ma la domanda si dilata, attraverso il respiro della narrazione, all’intero piano esistenziale di chi si scopre “diverso” e non trova una forma definitiva in cui riconoscersi.

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