Much Moore
Una delle caratteristiche principali di quello che si conferma sempre di più come uno dei più rilevanti fenomeni degli ultimi anni, vale a dire Michael Moore, è il fatto che si muove su più terreni. Riscuotendo uguale e strabiliante successo. Se infatti la fortuna di Moore almeno in Europa gli è derivata dal successo a Cannes (edizione 2002) di Bowling a Columbine, che gli ha garantito un inedito, per un documentario, successo di pubblico e l’ha portato a vincere anche l’Oscar 2003 come miglior documentario dell’anno, l’attività del nostro comincia quindici anni prima e si concretizza, alternando progetti cinematografici, televisivi o libri.
In virtù della fama che si è conquistato con la riflessione sulla violenza in Usa a partire dalla strage di Columbine, Moore è ora anche in Europa un vendutissimo autore di almeno due libri: Stupid White Men (2001), che ha venduto più di 4 milioni di copie nel mondo, confermandosi saggio più venduto in Usa nello scorso biennio e Hey Dude, where is my country? ( Ma come hai ridotto questo paese, 2003).
Negli ultimissimi anni Moore si è ritrovato (a sua stessa insaputa) quindi a riscuotere un successo assolutamente insperato che da un lato l’ha reso una delle figure di maggior riferimento, un vero e proprio paladino, per la sinistra di tutto il mondo, dall’altro gli ha garantito una libertà e un’indipendenza quasi totale.
Un esempio da manuale di come si possa conquistare e garantirsi la possibilità di dire e fare esattamente ciò che si vuole (e chiaramente parliamo di politica), grazie al potere e al successo mediatico che ci si è conquistati. Una cosa che (specialmente in Usa), non capita tutti i giorni.
Moore è autore di film, libri e di trasmissioni televisive. In particolare ha realizzato, prima del celebre Bowling a Columbine del 2002, un documentario, Roger and Me, che, pur non paragonabile al successivo lavoro, è stato un campione d’incassi, rappresentando un primo, fondamentale passo verso l’affermazione e il successo del nostro.
Per quanto riguarda i libri Moore ne ha scritti tre con un andamento del tutto simile a quello dei documentari: il successo del primo libro, Downsize this del 1996, gli ha permesso di pubblicarne un secondo in grande stile, con le conseguenze già accennate (quattro milioni di copie). Re Mida dei nostri giorni, Michael Moore ha battuto ogni record in senso commerciale sdoganando in senso di successo generi tradizionalmente considerati di nicchia, come la saggistica e, in maniera ancora più considerevole, il documentario. Un inedito e enorme successo per cui è oggi uno dei leader, almeno in senso di potere mediatico (ma del resto siamo o non siamo in una società dello spettacolo?), più importanti del Movimento di fine millennio.
Detto questo può essere interessante rilevare differenze e affinità nelle diverse attività mooriane, in particolare tra libri e prodotti cinematografici. Moore dimostra infatti, e il successo riscosso ne è ulteriore prova, una grande capacità di confrontarsi con mezzi diversi (quali, appunto, quello cinematografico e quello editoriale) con eguale fortuna e bravura.
Comune è innanzitutto il desiderio di confrontarsi con i temi di bruciante attualità e la notevole passione civile che muove il tutto. Ma più a fondo c’è una questione di stile.
La caratteristica principale dello stile mooriano (sia nel cinema che nei libri) è ,infatti, quello che forse gli ha garantito in massima parte il suo successo. Tra le tante modalità che si possono scegliere quando si vuole fare un discorso a forte valenza politica di inchiesta (se non vero e proprio giornalismo d’assalto) Moore ha infatti scelto quella dell’ironia, della satira, che spesso come si vedrà sconfina nel comico puro. Uno strumento che si è rivelato una scelta perfetta: da un lato conquista molto più pubblico di altre modalità e dall’altro è perfetto per la tipologia di inchiesta che il nostro compie. Rimanendo in Italia il paragone più azzeccato, più de Le Iene a cui da molti è paragonato, viene in mente la pungente satira di Michele Serra. L’ironia è l’arma migliore, a patto di saperla utilizzare. E il nostro la sa utilizzare perfettamente. La strada dell’ironia (unita a un grande garbo, tale da renderla ancora più efficace), tesa a colpire senza pietà, caratterizza macroscopicamente tutta la sua attività. Se l’obiettivo è quello di occuparsi delle questioni più scottanti oggi possibili, Moore non abbandona mai la strada maestra dell’ironia: del resto proprio il ridicolo è quello che da sempre i potenti temono più di tutto. E Moore vuole far riflettere facendo ridere e ridendo egli stesso.
Un’ironia che non ha paura di sconfinare nella vera e propria comicità: si veda il capitolo (gli ultimi due libri di Moore si presentano divisi in brevi capitoli che affrontano diversi argomenti) Jesus W. Christ, in Ma come hai ridotto questo paese, degno del migliore Benni. Se il tono complessivo rimane quello fortemente ironico, d’altro canto Moore dimostra di possedere la perseveranza, la precisione e il talento del migliore e più serio giornalismo d’inchiesta americano. Se quindi diverte e fa ridere, Moore contemporaneamente informa e fa riflettere su temi di scottante attualità, attaccando senza nessun timore le massime potenze del suo paese. Se già n Stupid White Men ampio spazio è dedicato a Bush (in capitoli come Un colpo di stato molto, molto americano o Caro George fino a Le tristi e sordide vicende di Bin Cheney e Bin Bush) stesso discorso vale per il successivo Ma come hai ridotto questo paese (con i capitoli Sette domande per George d’Arabia o La rimozione di Bush e altre pulizie di primavera). Ma nei numerosi capitoli delle due opere si parla della situazione disastrosa e agghiacciante del carcere americano alla questione femminile, dal razzismo all’emergenza energetica per arrivare (of course) alla guerra in Irak e annesse bugie messe in giro da tanti.
Moore però dimostra una grande abilità nel confrontarsi con mezzi molto diversi e le differenze tra libri e film ne sono la dimostrazione. Come si è già accennato i libri sono suddivisi in diversi capitoli, tutti a sé stanti, nei quali si occupa di più temi, anche molto generali ma comunque sempre sostenuti da una seria e vasta documentazione (e di ciò valga il puntuale apparato delle note). Il risultato rende la lettura (anche in virtù della scrittura) molto agile e leggera.
I documentari invece, e non potrebbe essere diversamente, si soffermano su un tema principale che mette in gioco più interrogativi (anche complessi e profondi) e che è analizzato con esaustività e precisione.
Con intelligenza, il nostro sa quindi adeguarsi ai diversi mezzi espressivi, utilizzando però uno stile immediatamente riconoscibile e affrontando argomenti del tutto affini, se non identici: il nuovo documentario, Fahrenheit 9/11, è basato su Sette domande a George d’Arabia, primo capitolo dell’ultimo libro di Moore, interamente incentrato sui rapporti tra Bush e Bin Laden (argomento anticipato del resto da Le tristi e sordide vicende di Bin Cheney e di Bin Bush, postfazione del precedente Stupid white men).
Una domanda sorge spontanea: perché tra i leader no global più importanti c’è un gringo che a vederlo non gli dai poi molto? Forse proprio per il suo essere così profondamente americano (nel senso buono del termine): chi nella Vecchia Europa avrebbe l’ingenuità e una certa inconsapevolezza, unita però a coraggio e determinazione ,di affrontare temi così caldi e complessi come quelli di cui si occupa Moore, con tale leggerezza e ironia (che non vuol dire superficialità)? Nessuno, appunto.
Del resto la stessa vicenda di Michael Moore è l’ennesima variante del sogno americano: chiunque può arrivare alla fama e al successo. Basta avere talento, crederci e un pizzico di fortuna e il gioco è fatto.
Odiato e amato con la stessa intensità di Moore comunque non si può non parlare. Così che, almeno in Usa, il documentario d’inchiesta militante sta vivendo una vera e propria nouvelle vague con opere di giovani e meno giovani presentate a Festival e che suscitano un successo solo poco tempo fa del tutto insperato. È il caso di Super Size Me del trentenne Morgan Spurlock, violento (ma ironico) atto d’accusa contro Mc Donald’s. Spurlock ha girato gli States per un mese nutrendosi tre volte al giorno esclusivamente nei fast food della catena. Per vederne e registrarne gli effetti. Costato pochissimo e presentato con successo al Sundance, il film sta riscuotendo un ottimo riscontro al botteghino. Piccoli Moore crescono? Vedremo.
A cura di Carlo Prevosti
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