Donne cyborg pronte per l’uso
Nicole Kidman non finisce mai di stupire per la sua duttilità d’attrice. E forse anche la definizione di interprete più versatile del mondo, ora, rischia di andarle stretta. Perché anche in questa commedia noir di Frank Oz (The Score, In & Out), per sua natura inizialmente leggera, anche se addensata dal thriller dei segreti delle donne perfette di Stepford, riesce ad ipnotizzarci e a dare sostanza a tutto il film tramite un’interpretazione straordinariamente poliedrica, passando dal registro fortemente autoironico della manager licenziata in tronco, a quello drammatico della donna predestinata alla sottomissione maschile, fino alla pupattola remissiva del finale, con stupefacente equilibrio. Così facendo, la Kidman reinventa anche l’intervento dell’attore nel genere della commedia brillante, svincolandolo da quell’elemento meramente macchiettistico che da sempre caratterizza il cinema americano. Una valutazione oltremodo positiva dell’attrice di scuola australiana che sento di poter esprimere anche in forza del fatto di aver avuto la fortuna di assistere alla versione originale de La donna perfetta (The Stepford Wives), cogliendo, quindi, in presa diretta, tutte le finissime variazioni vocali della grande Kidman e comprendendo una volta di più perché il pubblico americano preferisca visionare i film stranieri col solo apporto delle didascalie (anche perché, sia detto a margine, gli States non possono certo annoverare un’alta scuola di doppiatori come quelli italiani).
Comunque, non c’è solo la Kidman (nella parte di Joanna) a far brillare il film di Oz. Accanto a lei, in questo che è un remake del cult movie La fabbrica delle mogli (The Stepford wives, Bryan Forbes, 1975), il regista affianca altre due straordinarie interpreti: Bette Midler (Bobbie), in formissima e divertente sia nella versione della moglie disordinata (dove ricorda la Joplin di The Rose) che in quella fin troppo diligente, e Glenn Close (Claire), assolutamente perfetta e trasognata nell’enfatizzare quell’illusoria “American way of love” che nella pellicola viene costantemente e ironicamente stigmatizzata come indice di una società maschile sessualmente repressa perché ipocrita, in quanto libertina e puritana al tempo stesso.
Sul versante degli interpreti maschili, Matthew Broderik (Walter, marito di Joanna) si affida un po’ troppo agli stilemi sopracitati della commedia brillante, confidando, al solito, sui suoi occhioni sgranati da pesce lesso che funzionano solo fino a metà film, ma che poi stancano per ossessiva ripetitività. Invece Christopher Walken (Mike, marito di Claire), deus ex machina delle donne robotizzate di Stepford, è carismatico e affabulatore nella funzione di galvanizzatore dell’ego maschile. Il profilo psicologico affidatogli da Oz è ancor più complesso di quello assegnato alla Kidman, in quanto Mike non può affidarsi all’autoironia, ma principalmente alla nevrosi biomeccanica del personaggio che con la fisima del perfezionismo sforna delle donnine orribilmente perfette. Walken traduce tutto questo con la sua classica maschera inquietante che a volte si amalgama con uno stile da telepredicatore, tanto convincente quanto venditore di fumo. In questo, sostenuto dalla moglie Claire, tanto devota da condividere le sorti del marito sino all’estremo sacrificio.
Un sacrificio che evoca immediatamente l’immaginario maschile legato proprio alle “Stepford Wives”. Una locuzione che già dopo il successo del film di Forbes negli Usa assurse a modo dire, a sinonimo deteriore di donne e mogli splendide fuori ma vuote dentro. Che, a parole, la società statunitense sostiene di deprecare, ma che evidentemente riaffiora come costante nei sogni dell’americano medio. E non a caso, nel film di Oz, la moglie cyborg per eccellenza è interpretata dalla star della musica country Faith Hill. La quale deve la sua notorietà sia al lancio della sua immagine sexy che ai suoi motivi orecchiabili e accattivanti come l’emblematico “The way you love me”. Inquadrato in tal senso, l’affondo di Oz sull’ipocrisia della società maschile americana è dei più riusciti perché aggiorna il vecchio modo di dire delle “Stepford Wives” sull’immagine di una star contemporanea. Un mix tra memoria e presente che poi trova perfetta risoluzione in una difficilissima commistione di generi che partono dal prologo e substrato della commedia brillante, passando per la suspence delle indagini di Joanna e Bobbie, arrivando al dramma fantascientifico del finale. Un film da studiare a fondo, insomma, oltre che da godere per la sua impeccabile confezione.
Curiosità: Sia il film di Forbes che quello di Oz si ispirano al romanzo La fabbrica delle mogli di Ira Levin, anche autrice di quel Rosemary’s Baby da cui Roman Polanski trasse l’omonimo film.
A cura di Osvaldo Contenti
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