La porta del paradiso
Una favola spirituale ispirata dalla storia del poeta Attar che nel XIII secolo divenne artista errante dopo aver negato la carità ad un derviscio che a seguito dell’episodio invocò Dio e morì e da un’antica leggenda islamica. Secondo tale leggenda ogni uomo ha due angeli invisibili sulle spalle, quello a destra annota le buone azioni e quello a sinistra le cattive, alla fine verranno soppesate e sarà inferno o paradiso. Il protagonista, Hamro, egoista e violento, torna dopo dieci anni passati nelle prigioni russe nel suo villaggio natale. A casa lo attende la madre Halima, donna semplice e saggia, preoccupata che la sua bara non passi attraverso la porta di casa che il figlio lasciò montata a metà alla sua partenza. Le attenzioni e gli espedienti affettivi della madre e la paternità inaspettata provocheranno nell’uomo il germe del cambiamento. “Il film parla della povertà e dell’amore materno” e lo fa raccontando i piccoli gesti e le psicologie primitive di un microcosmo la cui storia acquista valenza universale. Il lungometraggio, cui farà seguito L’angelo della spalla sinistra, gioca fin dall’inizio con il tema della morte e, con una piccola dose di moralismo, sul contrasto tra la dissolutezza e l’egoismo dei tempi moderni e la nostalgia per i valori antichi e il coraggio del sacrificio.
Geometrie visive
Tra sogno, cinema (Hamro fa il protezionista) e realismo, la struttura narrativa conduce con naturalezza e senza accelerazioni drammatiche verso il finale. Girata in presa diretta e in autunno perché l’aurore voleva “che avesse i colori della terra secca e del grano maturo”, la pellicola offre momenti duri e poetici come la scena in cui padre e figlio per mano attraversano il paese in mezzo a sguardi ostili come i protagonisti di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948). La regia, che si avvale anche di attori non professionisti, è essenziale e apparentemente semplice ma Usmonov è un discepolo dichiarato di Pasolini e Antonioni e le ricercate inquadrature sono costruite con geometrie visive di linee verticali (porte, finestre, muri, tende, colonne, ….) che creano un effetto sipario, quasi un cinemascope rovesciato che definisce lo spazio limitando la possibilità di azione dei personaggi fino alla “resurrezione” finale rappresentata in una ultima linea orizzontale.
Curiosità:
Il film arriva in Italia solo due anni dopo la realizzazione, dopo essere stato presentato in diversi festival internazionali da Cannes a Tokyo, da Barcellona a Rotterdam, raccogliendo ovunque premi e riconoscimenti.Il film è stato girato ad Asht, città natale del regista situata nel Tajikistan del nord, la regione più ricca del paese risparmiata dalla sanguinosa guerra civile del 1992-98.
A cura di Raffaele Elia
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