Il cinema come avvertimento
Una tipica famiglia borghese, i cui membri sono inquadrati vicini e un passo indietro rispetto al padre-capofamiglia, giunge nella casa di campagna che trova occupata da persone ostili e terrorizzate. L’apertura del film sembra far rivivere le stesse sensazioni dello spietato “Funny games” (dello stesso autore, 1997) e non l’inizio di un incubo in cui l’umanità è regredita allo stadio primitivo priva dei mezzi essenziali di sussistenza. Una favola nera disseminata di segnali lynchiani di capre squartate, puledri sgozzati, roghi di cavalli e colorata con il sangue che affiora simbolicamente sul viso di Anna, dal naso di Ben e sui corpi degli animali. Per gli uomini in cattività di Haneke l’unica speranza è la ferrovia, ultimo segno della vecchia civiltà ma anche potente simbolo cinematografico.
Personaggi-fantasma
I volti degli attori sono spesso ripresi in penombra, illuminati parzialmente (e pittoricamente) da fiamme infernali e alternati da bruschi stacchi a “campi lunghi” con prati verdi e luce accecante; paesaggi incantati e irreali come scenografie teatrali. Non c’è colonna sonora, i dialoghi sono scarni e dimessi, i pianti e i lamenti onnipresenti e grande spazio è riservato ai rumori. Gli attori, anche importanti (Dalle, Gourmet), sono in secondo piano rispetto all’oppressiva atmosfera generale, appaiono persi in qualcosa di superiore non favorendo l‘immedesimazione con i personaggi; anche la Huppert, già musa terribile e pluripremiata di Haneke nel sado-celebrale “La pianiste” (2001), recita volutamente sottotono e il suo ruolo svanisce progressivamente fino a confondersi con gli altri personaggi-fantasma.
Lo spettatore spaesato
Il film più che un messaggio sembra lanciare un inquietante avvertimento, un’apocalisse della civiltà in “una storia di un sacrificio, di santificazione” evocativa di Tarkovskij. Il pessimismo non si attenua nell’immagine bergmaniana del finale con il bambino stagliato nel fuoco. Una filosofia dell’angoscia irrisolta al servizio di un cinema difficile che disturba, non spiega, non coinvolge e non facilita il compito dello spettatore chiedendogli di rinunciare all’aspettative di una narrazione lineare e di messaggi chiari. Nel disagio si resta in bilico tra il fascino del mistero e la necessità di una spiegazione. L’autore è molto esigente con il pubblico, ma la sua visione della settimana arte presuppone un atto di fede e di abbandono critico. Forse Haneke è uno dei 36 giusti che reggono il peso del mondo nella parabola ebraica citata nel film!
Curiosità
I 36 giusti di cui si parla nel film, sono quelli citati nella Torah (il libro sacro dell’ebraismo), secondo cui “ .. in qualsiasi momento della storia ci sono sempre 36 giusti al mondo. Nessuno sa chi sono e meno che meno loro stessi …”
Il capo della microcomunità nella prima parte del film è interpretato da Olivier Gourmet premiato come miglior attore al Festival di Cannes 2002 per Il figlio (Le fils, Luc e Jean-Pierre Dardenne, 2002)
A cura di Raffaele Elia
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