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La libertà espressiva dell’artista

La libertà espressiva dell’artista

Pittore lodato sia da Raffaello che da Michelangelo per la sua sapienza tecnica, molto meno dal Vasari che, a torto, mal sopportava l’indiretta influenza del Dürer sulle sue opere (si vedano, ad esempio, la Cena in Emmaus e il Ritratto di giovinetto), Jacopo Carucci, detto il Pontormo (dal paesino presso Empoli dove nacque nel 1494), è il prototipo dell’artista schivo, scontroso e riservato che più tardi ritroveremo in molte biografie di artisti. Caratteristiche che, non a caso, abbiamo recentemente riscontrato anche nel Vermeer de La ragazza con l’orecchino di perla (Girl with a Pearl Earring, 2003) di Peter Webber. Un film che, assieme al Pollock (id., 2000) di Ed Harris e al recentissimo e splendido documentario Lo sguardo di Michelangelo (id., 2004) girato da Antonioni, ha forse aperto un ciclo di pellicole dedicate all’arte e agli artisti di cui si sentiva davvero la mancanza. E non solo da parte degli addetti ai lavori, ma anche per un pubblico, specialmente di giovani, che ha affollato le sale con il film di Webber apprezzandone il lato artistico come quello spettacolare.

Fago, con l’obiettivo di non deludere tali aspettative, col suo Pontormo ha argutamente giocato su due piani narrativamente paralleli: il rigore storico-artistico che accompagna gli ultimi anni di vita dell’artista toscano e un elemento di pura fiction affidato al personaggio immaginario di Anna (Galatea Ranzi). La quale ha il compito di appassionare lo spettatore in un intreccio drammatico che accomuna Pontormo (Joe Mantenga) alle sorti di una ragazza muta e indifesa che ad un certo punto subirà persino un processo per pratiche stregonesche, da parte di un’inquisizione non più virulenta come per il Savonarola e la sua “De ruina ecclesiae”, ma ancora attiva nel perseguire ossessivamente gli atteggiamenti eterodossi, non in linea con i dettami della Chiesa, manifestati nelle opere anche degli artisti più illustri.

Tutto ciò in un accavallarsi tra fiction e realtà storica. In quanto il Giudizio Universale, ultimo affresco del Pontormo (terminato in seguito dall’allievo Bronzino), già in fase di esecuzione, come rilevato nel film, venne effettivamente malvisto dal clero di allora. Giacché in tale opera il Cristo sormontava il Creatore e non vi apparivano né la Madonna né i santi. In una concezione del divino adottata in quel tempo dagli “spirituali”, la cui dottrina era votata a quella che in seguito si rivelò come un’impossibile mediazione tra le spinte della riforma luterana e le resistenze dell’ortodossia della Chiesa di Roma. Il risultato di tale insanabile diatriba portò a quella che in gergo artistico viene chiamata scialbatura di una superficie affrescata. In altre parole, il Giudizio di Pontormo, dopo la morte dell’artista avvenuta nel 1557, venne imbiancato ed intonacato sino a distruggere l’opera sua e quella finale del Bronzino. Il quale, fiutata l’aria, all’arte pittorica abbinò quella diplomatica (assai carente nel Pontormo) che in futuro gli assicurò una fruttuosa e tranquilla permanenza presso la corte medicea che per il suo maestro, invece, risultò sempre conflittuale e problematica. Un tema riguardante la libera espressione di ogni artista, dunque, che nel film di Giovanni Fago acquisisce una lettura-chiave mano a mano che Pontormo si rende conto, assieme allo spettatore, che l’anello politico-economico-ecclesiastico stretto attorno a sé e alla sua arte si fa sempre più asfissiante. A quel punto, per il nostro, vengono meno quasi tutte le motivazioni caratterizzate dalle fughe da Michelangelo, attuate per approdare alla “maniera nuova” (da cui il termine “manierismo”) di una “pittura moderna”, anticlassica, che pur rifacendosi ai grandi maestri del Rinascimento (per Pontormo ancora contemporanei) cerca vie nuove sia nell’espressione di inedite forme plastiche (come i corpi che si allungano e quasi si deformano come in specchi convessi) e la luce filtrata in colori irreali (specialmente in rossi e verdi iridescenti) che partendo dalla realtà si confondono in un primordiale concetto di astrazione.

Fago è abbastanza volonteroso nel mostrarci tutto questo. Tuttavia, a nostro parere, non riesce a scaldarci al fuoco di quei colori, di quelle nuove vibrazioni cromatiche. Certo è molto difficile rendere visibile un concetto così palesemente astratto, anche se supportato da opere tangibili. Ma, forse, il troppo insistere sul piano “politico” e sullo scontro tra potere ecclesiastico e l’opera del Pontormo non ha giovato all’intima comprensione dell’artista. Una scelta narrativa che se accresce la statura morale del pittore ne appiattisce la dimensione artistica. Comunque, a prescindere da quest’ultima opinabile valutazione, il film va assolutamente visto anche per non perdersi la prova di alcuni straordinari attori: uno strepitoso Laurent Terzieff nella parte dell’Inquisitore, la già citata Galatea Ranzi che nei panni di Anna è tanto brava da far “parlare” col corpo quel personaggio muto, un insinuante e perfetto Toni Bertorelli nelle vesti del priore S. Lor e un magnetico Vernon Dobtcheff che interpreta Riccio, l’alchimista che impasta i colori di Pontormo. Un poker d’assi di interpreti che solo un cinema scellerato come quello italiano non sa o non vuole sfruttare nelle sue migliori produzioni cinematografiche, preferendo attori balbettanti o attrici stile “So’ Beatrisce e faccio l’attrisce” che però possono vantare una quinta misura di reggiseno.

Curiosità: “Il libro mio”, diario di Pontormo scritto dall’artista nei suoi ultimi anni di vita e che in parte ha ispirato il film di Giovanni Fago, è scaricabile gratuitamente nel web in versione e-book sul sito www.romanzieri.com

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