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Le “magie” di Cristo

Le "magie" di Cristo


Il tempo dei miracoli è diviso in due parti: la prima, che dà titolo al libro, è la rielaborazione narrativa dei miracoli compiuti da Cristo nei Vangeli; a essere protagonisti sono dunque i lebbrosi, i ciechi, gli storpi, gli ossessi, i morti guariti dalla “magia” del divino taumaturgo. La presenza di quest’ultimo è marginale all’interno del romanzo, anzi capita a volte che la storia di un miracolo prenda le mosse a miracolo già avvenuto, con il miracolato “gettato” nella vita a dovere scontare le conseguenze della propria guarigione. Quando invece Gesù appare, fa sempre una misera figura: un ometto scarno, già vecchio nella sua trentina d’anni, assolutamente incapace di far uso delle proprie doti soprannaturali finché la forza di Adonai, il Dio suo padre, non lo pervade attraversandolo come una scarica elettrica: e allora ecco, il miracolo è compiuto! E, bisogna dirlo, spesso questi atti di inconcepibile altruismo non sono nemmeno richiesti. Mezevelio, il muto la cui lingua viene sciolta dal Maestro, si ritrova con un piccolo inconveniente: prima del miracolo, muto, poteva urlare dentro di sé le peggiori maledizioni e gli insulti più violenti verso i dominatori romani; ora la sua voce risuona vigorosa tra le mura Gerusalemme: preso, bastonato dai soldati, trascinato sul Golgota. La prima frase che pronuncia, dono del Signore, lo condanna a morte.

C’è poi Egla l’impura, scacciata da Jabneel Vecchia perché lebbrosa. Ha lasciato alle spalle l’amato Geroboamo, banditore, la cui voce sente risuonare fino a Jabneel Nuova – sua nuova casa, impuro regno degli impuri – in uno straordinario impasto di disposizioni “municipali” e messaggi d’amore a lei diretti: «coloro che non pagano all’imperatore ciò che è dell’imperatore […] vengano spellati con il rasoio, strappata la lingua, bruciati gli occhi, le orecchie tagliate in mezzo al mercato e sminuzzate sul ceppo […] ciò che di loro sfuggirà al castigo che sia appeso a una croce per tre giorni, e tu sei, mia amata, come un corsiero del cocchio del faraone, belle le guance tue adorne di fregi, il tuo collo di monili, i capelli tuoi come greggi di capre che pascolano sulle pendici di Galaad». La donna, tuttavia, consapevole della condizione irreversibile in cui la lebbra la costringe, si è “rifatta una vita” nella città Nuova con un nuovo compagno, Uria, lavatore di morti. Oggetto involontario (anzi piuttosto incredulo) dello zelo messianico, Egla guarirà: ma non sarà più accettata né dai puri della città Vecchia, i quali non credono alla guarigione, né dagli impuri di Jabneel Nuova, maldisposti a riaccogliere una donna «evidentemente sana».

I miracolati, gli apostoli, Cristo stesso, non sono altro che pedine di un gioco crudele, già giocato, sono la sacrificale “carne da cannone” della Fede e della Storia. Nel romanzo di Pekić il Nuovo Testamento è già stato scritto, è un copione assurdo in cui tutti leggono controvoglia la propria parte.

La seconda parte del romanzo si intitola: Il tempo delle morti, ed è nientemeno che il diario di Giuda dell’ultimo anno della “campagna” di Gesù. Qui emerge la figura del “traditore”, in verità il seguace più zelante e amorevole di Cristo, colui che viene soprannominato, per la sua solerzia, “Che la Scrittura si compia”. Il suo sacrificio non è poi dissimile da quello del suo Maestro: «ci sono due vittime sacrificali […] Amanti e nemici appaiati, che passo dopo passo realizzano la Scrittura lettera per lettera; Giuda e Joshua offrono il sacrificio che salverà e redimerà tutti tranne loro.» Questa visione del “maledetto” per eccellenza, Giuda, ricorda quella di Nikos Kazantzakis, autore del romanzo L’ultima tentazione, da cui fu tratto il film “L’ultima tentazione di Cristo” di Scorsese. Ma nel libro di Pekić è accentuato il suo ruolo attivo, il suo fanatismo “più realista del re” (cioè Cristo), a confermare la condanna di questo atipico, complesso romanzo verso qualsiasi forma di dogmatismo. Del resto, com’è noto, è sempre esistito un culto della figura di Giuda, ai limiti dell’eresia, che vede in lui non il traditore, bensì il salvifico, innocente strumento di cui Dio si serve per la realizzazione dei propri piani.
Traduzione dal serbo-croato di Alice Parmeggiani Dri.

Borislav Pekić nasce nel 1930 a Podgorica (Montenegro). A diciotto anni viene arrestato perché appartenente al partito illegale Gioventù Democratica Jugoslava e condannato a quindici anni di carcere duro. Ne sconta cinque: in questi cinque anni ha avuto un solo libro da leggere, una Bibbia. Nel 1965 pubblica il suo primo romanzo, Vreme čuda (Il tempo dei miracoli) di cui realizza anche una sceneggiatura per un film dallo stesso titolo, diretto da Goran Paskaljević nel 1989. Un’altra opera di Pekić apparsa in Italia è il romanzo Kako upokojiti vampira (Come placare il vampiro, De Martinis & C., Catania 1993). L’autore muore a Londra nel 1992.

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