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C’era una volta in Africa

C’era una volta in Africa

Fa impressione l’idea di quanto un film come In my country possa essere, oggi, attuale rispetto all’idea che esso racconti fatti accaduti ormai da oltre un decennio. I quotidiani riportano le notizie di torture e soprusi da parte di soldati americani e militanti iracheni sembrano richiamare intenzionalmente le immagini del film che invece parlano degli atti criminali compiuti dagli Afrikaans bianchi (europei) ai danni della popolazione nera del Sud Africa, fino a quanto ha retto il regime dell’Apartheid. Il film di Boorman vuole proporsi come un affresco del processo di riconciliazione che, guidato dallo sguardo lungimirante dell’ex detenuto e, poi presidente del Sud Africa, Nelson Mandela, ha cercato di riportare una parvenza di pace e di convivenza fraterna fra le varie etnie presenti nello stato. Il processo di Riconciliazione prevedeva che dietro la piena confessione dei propri delitti e a seguito della successiva accusa nei confronti di chi materialmente ordinava i soprusi, i criminali bianchi ottenessero una piena amnistia nella speranza che l’odio non generasse nuovo odio, e quindi vendetta, semmai spingesse verso il perdono.

È il caso di soffermarsi su questi elementi di storia Africana per comprendere come il tema affrontato dal film sia forte e il materiale a disposizione di Boorman sia vastissimo, degno di una vera epopea antiapartheid. In realtà il film prosegue sì l’obiettivo di far conoscere la verità ma lo fa con uno stile piuttosto piatto, televisivo, assolutamente inadatto all’argomento, tanto che stupisce sapere che fosse in concorso al Festival di Berlino (mah… Il tema forse).
Il cartello iniziale, infatti, affonda lo spettatore nella consapevolezza che le ricostruzioni delle confessioni, e quindi i ricordi delle atrocità, siano state fatte a partire dai documenti “veri” prodotti durante i processi, sebbene in realtà esse diventino uno sfondo per una delle storie d’amore più inverosimili che si siano potute vedere al cinema di recente. Samuel L. Jackson, giornalista afro-americano (come tiene a sottolineare) nero d’assalto, viene inviato per documentare le fasi del processo per un grosso giornale, giunto sul luogo incontra una zuccherosa poetessa votata al radiogiornalismo, sudafricana, bianca e spinta da un forte (e motivatissimo) senso di colpa nei confronti del recente passato del suo paese.
I due prima si odiano, poi si amano, poi forse capiscono che i loro destino non sono fatti per stare insieme e intanto svelano i propri terribili segreti, nonché quelli di un’intera nazione. Spiace dover ammettere che da un regista come Boorman (Un tranquillo weekend di paura e Excalibur) ci si poteva aspettare un prodotto confezionato con una cura maggiore e con una pennellata autoriale maggiormente incisiva. Non basta un argomento capace di stringerti lo stomaco per la sua durezza per fare un grande film.

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