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Un futuro possibile

Un futuro possibile

Se è vero che Fritz Lang nel ’26 ebbe l’impulso di girare Metropolis vedendo per la prima volta lo sfavillio di luci della New York notturna, possiamo immaginare che Michael Winterbottom abbia subito un imprinting molto simile osservando l’odierna realtà massificata di una megalopoli come Shanghai. Una fortezza del non essere, ma al contempo una miniera d’oro. Dopo che nello scorso decennio pagò dazio per il suo futuro benessere espellendo la bella cifra di 2 milioni e mezzo di abitanti, al fine di accogliere in una città super-globalizzata gli entourage di 56 multinazionali e centinaia di altri gruppi industriali e finanziari che ne hanno fatto una potenza economica ma anche una cattedrale nel deserto, ai cui margini le baracche degli sfollati possono “vantare” lo sfondo panoramico di alcuni dei grattacieli più arditi e più belli del mondo. Un accostamento che, comunque lo si giudichi dal punto di vista socio-economico, emana uno stridore agghiacciante.

Conosciuti questi presupposti, non è difficile capire perché Codice 46 sia stato ambientato proprio nella metropoli cinese. O meglio, in un suo possibile futuro. Con varchi elettronici a presidio della città cui si accede solo con delle card denominate “papelles”, che naturalmente innescano un mercato nero delle stesse. Materia sulla quale dovrà indagare William (Tim Robbins), un esperto assicuratore dotato di un empathy virus capace di leggere nel pensiero della gente comune come negli individui sospetti. Un controllo in stile orwelliano piuttosto ricorrente tra i film di fantascienza e di fantapolitica che, infatti, con le dovute differenze, possiamo ritrovare in: Zardoz (id., John Boorman, 1974), La fuga di Logan (Logan’s Run, Michael Anderson, 1976), Orwell 1984 (Nineteen-Eighty-Four, Michael Radford, 1984), Mad Max – Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, George Miller – George Ogilvie, 1985) e per certe assonanze ambientali, linguistiche e sociologiche anche in Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982) e Minority Report (id., Steven Spielberg, 2002).

Il fatto che spesso sia la fantascienza a focalizzare alcune insidie del presente non deve stupire. In quanto è proprio la deformazione, la resa macroscopica dei difetti della contemporaneità che in tale chiave ci appare più chiara. Perché svuotata dei suoi abitudinari corollari che non ci permettono di assimilarla se non come concetto astratto, che in quanto tale releghiamo a mero esercizio speculativo o come semplice parto della fantasia da cui perciò rifuggiamo. Invece, per convincerci del contrario, dapprima Winterbottom ci parla del pericolo insito nella selezione genetica esposto nel protocollo del famigerato Codice 46. Poi, quasi cambiando registro, per lanciare il suo accorato allarme passa alle categorie estetiche. Ed ecco apparire i paesaggi spettrali delle periferie filtrati con colori acidi. Lo scorrere dei vagoni del metrò così uguali e informi da confondersi in una sola scia. I volti della gente quasi senza espressione e movimento. La politica veicolata solo dal lavoro di solerti e tranquilli burocrati. Una vita non-vita dove tutto appare calmo e regolato, ma dove ogni cosa scorre senza anima e senza amore. Anzi, la sola volta che William fa l’amore con Maria (Samantha Morton), che eppure telepaticamente scopre essere una falsaria delle “papelles”, appena scoperto non solo rischierà di diventare un emarginato, ma la sua memoria verrà svuotata di ogni traccia della sua unione adulterina, col consenso di una moglie che preferirà così piuttosto che chiarire il rapporto con il marito.

Tutto questo a ben vedere non è Orwell, è peggio. E’ l’autoannullamento delle coscienze che reclamando la normalità inibisce ogni anomalia, ogni diversità. Basta non vederle o cancellarle e queste non esistono. Meglio, non sono mai esistite. A tutti noi non resta che stabilire quanto di questo futuro faccia già parte del presente.

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