C’era una volta il cinema
Cosa ci fanno un giornalista inglese, un anatomo-patologo ucraino e un giovane tecnico per le riprese cinematografiche moscovita su di un treno diretto verso il paesino russo di Astapovo nell’inverno del 1910? Vanno a visitare il conte Tolstoj, che è bloccato qui ad attendere l’incontro con il suo Dio. Tolstoj è uno di quei personaggi che hanno “fatto la storia”, grande scrittore e grande teorico di un cristianesimo puro e limpido, fatto di fratellanza e semplicità. Ma è veramente lui che ha “fatto la storia”?
Kalfus ci introduce ad uno dei temi più scottanti del postmoderno, che vuole l’abbattimento del concetto di “soggetto assoluto”, di “individuo politico storico”. Chi sarebbe Tolstoj oggi senza coloro che tramandarono le sue opere, senza coloro che contribuirono a costruire il suo mito. Da quest’opera quindi la storia ci appare come una serie di costruzioni, ottenute per effetto mitopoietico, che mettono in luce particolari personaggi. Insomma la storia non è fatta da chi la vive bensì da chi la racconta: «Tutto sta nel controllare non gli avvenimenti, ma il modo in cui saranno ricordati».
In questo panorama si sviluppano le vicende del giovane Gribšin, tecnico cinematografico per la Pathé Frères, narratore privilegiato della storia russa (sovietica?) di inizio secolo. Infatti ritroveremo il giovane impegnato nel compito di Commissario del popolo per l’Istruzione, durante la rivoluzione Bolscevica. L’importante amicizia con Stalin, saldata a Astapovo appunto, permetterà a questo di fare una folgorante carriera nella burocrazia rivoluzionaria.
Il cinema quindi diventa, per Kalfus, un mezzo privilegiato che permette l’influenza delle masse e l’educazione del popolo. Il cinema è il mezzo migliore per questo scopo, superando di gran lunga la carta stampata. Infatti: «a casa, seduto al tavolo, il libro aperto davanti a lui, il lettore era in grado di dissentire con le parole sulla pagina […] al cinema, circondato da altri, con le uscite sorvegliate dalla polizia e la mente inondata di luce, la stessa persona era costretta a rimanere seduta fino alla fine». Il cinema quindi diventa anche il mezzo migliore per la creazione della storia. Un modo per cristallizzare il progresso nel momento della sua stessa creazione. Un linguaggio narrativo rivoluzionario per narrare la Rivoluzione.
Il cinema dà l’illusione di cristallizzare gli avvenimenti e dà alla storia un’apparenza di verità ed eternità. Un’apparenza manipolabile e illusoria. La stessa apparenza che viene data da una macabra pratica perfezionata agli inizi del ‘900 dall’anatomo-patologo russo Vorob’ëv, che proprio come il cinema affiancherà e sosterrà la rivoluzione sovietica. La mummificazione.
Questo racconto freddo e cinico ci viene presentato da Kalfus attraverso uno stile piatto e glaciale, stile tipico degli scrittori americani di questo periodo, che sembra ricalcare quello di Rumore bianco (White Noise, De Lillo, Einaudi 2000). Nel Compagno Astapov riesce però ancora di più la spersonalizzazione e l’appiattimento, dando così l’impressione sia del resoconto storico sia, soprattutto, del documentario cinematografico.
Ken Kalfus, Brooklyn 1956. Apprezzato giornalista freelance, l’autore ha viaggiato per parecchio tempo in giro per il mondo stabilendosi a Dublino, Parigi, Belgrado e Mosca. Molto apprezzato dalla critica (premiato da Salon Magazine) e dai colleghi (osannato da David Foster Wallace) prima di questo romanzo ha pubblicato due raccolte di racconti, Thirst nel 1998 e PU-239 and Other Russian Fantasies nel 2000.
A cura di
in libreria ::