Tarantinia
Avevamo lasciato la sala da ballo di Oren Ishii, alla casa delle foglie blu, disseminata di arti e corpi mutilati, palpitanti e sanguinanti sul pavimento. Eravamo usciti dalla sala con le urla degli 88 folli che impazzavano nei timpani e i pezzi delle vittime di Black Mamba appiccicati ancora sulla pelle. Eravamo carichi quanto lei di roteare come una danzatrice di capoeria con la sua katana e di scattare come una ghigliottina micidiale su omini mascherati simili a avatar di un videogame.
Questo l’aspetto emotivo, esaltante, ma scavando sotto la superficie di quelle inquadrature, dietro le croste di sangue, prima di un affondo stilistico del regista (la spettacolarizzazione e la coreograficità dell’atto dell’uccidere, del taglio e della morte stessa, che per l’estremizzazione della rappresentazione diventavano pura ironia) scoprivamo l’atto metaforico di doktor Tarantino, un Frankenstein del nuovo millennio alle prese con l’arte della “cinegenetica“, nel pieno del processo di squartamento figurativo delle proprie passioni cinematografiche. Pratica certosina di un vecchio macellaio-chirurgo, dedito alla dissezione di b-movies, trash, yakuza, spahetti western, horror italiano anni ’70 e azione hong kongese, quella del cinegenetico è una branca specialistica dell’ingegneria filmica che prevede, nella fase successiva, la conservazione in provetta di ogni amore di celluloide per un futuro utilizzo creativo. Pertanto rielaborazione e non semplicemente citazione.
Pericoloso, immorale o addirittura emblema del canto del cigno di un profeta del cinema anni ’90 a secco di idee?
Dopo Kill Bill – Vol. 2 la faccenda si schiarisce. Doktor Tarantino trapianta il cuore pulsante del secondo episodio direttamente dentro il primo: la sfera dell’azione (primo episodio) fagocita quella dell’essere (secondo episodio), diventando tutt’uno. Relazioni tra personaggi, sentimento e dialoghi nel primo limitatissimi, innervano l’ultimo volume mettendo a nudo debolezze e umanità dei personaggi, e lasciando in superficie dialoghi che da tempo non sentivamo. Così facendo il nuovo mostro ora assemblato nella sua totalità, non solo respira e si muove come già faceva nel primo, ma prova anche emozioni, e tutta la vita aliena rappezzata al suo interno non è un semplice “collage di tanti altri” ma è “un nuovo essere” che ha assimilato l’insegnamento da tanti altri e che ora lo mette in pratica… Cercando di sfondare la cassa da morto dentro il quale l’avevano sigillato.
Il mostro è libero!
Epica, dialoghi ritrovati e spettacolo diventano mito: un intertesto alla Jameson* più che una recensione.
Sono Dio o cosa?
Era quello che si chiedeva il regista TV Wayne Gale in Natural Born Killer (1994). Probabilmente questa è la stessa domanda che si è posto uno dei più grandi pazzi maniaci della celluloide, che tra il lontano ’92 e ’94 aveva dato una scossa alla storia del cinema con il trambusto di un contadino scanzonato del Tenessee, che passa con la sua motozzappa attraverso i giardini del vicinato. Erano i tempi di Le iene (1992), il progetto cinematografico più minimalista che si potesse immaginare, erano gli anni in cui spopolava Girl You’ll be a woman soon degli sconosciuti Urge Overkill, gli anni di una pellicola che rivoluzionò intreccio e fabula nella narrazione cinematografica, era il momento del gioco di scacchi cinematografico tridimensionale, Pulp Fiction (1994).
Ed essi sapranno che il mio nome è quello del signore, quando farò calare la mia vendetta sopra di loro. (Samuel L. Jackson in Pulp Fiction)
Quella persona, che a 22 anni trovava rifugio nella sua seconda casa, i Video Archives di Manhattan Beach, il videonoleggio californiano dove avrebbe condiviso il suo sapere con altri cinemalati, e che da buon chierichetto fedele al Dio-Cinema si era nutrito di tapes e laser-disk fino a far scorrere fiumi di pellicola nelle sue vene, aveva riempito la barra energetica che segnava la sua cultura cinematografica ai massimi livelli. Come in un videogame era riuscito a farla lampeggiare di rosso e a fare scoppiare tutti i nemici, imitatori e iettatori, con soli cinque colpi di dita alla Ken Shiro. Bang Bang!
Dopo il ’94, qualche fatica di mezzo e sei lunghi anni di meditazione nel tempio Shaolin di Zhongwei, il Super Mario Bros profeta del new blaxploitation, sentiva di essere pronto. La sensazione di aver attraversato con la furia omicida di un ninja tutti i livelli di difficoltà del gioco fino al portone della fortezza del Dio-Cinema in persona, lo portò alla grande sfida. Era giunta l’ora del duello col Supremo, la battaglia fino all’ultimo fotogramma che avrebbe deciso chi sarebbe stato il più astuto, come Clint Eastwood contro Gian Maria Volontè in Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964), o chi si sarebbe fatto invasare dalla più totale furia sanguinaria, come Johnny Mo (Pai Mei in Kill Bill) nei panni del monaco dalla testa rasata, noto come Master Killer in The 36th Chamber of Shaolin (Liu Jia-liang, 1978).
La faccenda è che in questo momento hai talento. Ma, per quanto sia doloroso, il talento non dura. E il tuo periodo sta per finire (Pulp Fiction)
Come si sia conclusa la battaglia sul monte Olimpo della cinematografia è un mistero che s’infittisce e si perde nelle nebbie della vetta. C’è chi parla di una testa mozzata dai capelli corvino e dal ghigno burlone, vista rotolare lungo le scarpate della montagna degli Dei, chi narra invece (e io sono tra questi messaggeri) che dall’altura giungono ancora le note di una tromba e un cembalo (sarà Morricone o Bacalov?) e che lo sferragliare lassù si fa sempre più indiavolato…
Action! (dal Trailer di Kill Bill – Vol. 1)
* Jameson, F. Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989.
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A cura di Fabio Falzone
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