Antropofagia comunista
Raccontare la storia di un serial killer non è certo un compito semplice. Il problema sta nel saper visualizzare le turbe del protagonista, riuscendo a tenere lo spettatore sul filo della tensione.
Quello che David Grieco, giornalista e scrittore all’esordio dietro la macchina da presa, ha cercato di fare, è stato metaforizzare il crollo psicologico di un uomo con il crollo dei suoi ideali e del mondo che gli sta attorno. Così Andrei Evilenko (chissà poi perché questo nome di fantasia, che suona un po’ come quello di un eroe cattivo dei fumetti) inizia a uccidere perché, dopo la morte del vero padre, deve subire la perdita anche di quello che è il suo padre putativo, cioè lo Stato comunista, che la Perestrojka gli sta uccidendo. Morte chiama morte, così Andrei, che tra l’altro in trent’anni di matrimonio non ha mai fatto sesso con la moglie, inizia a scatenare la sua ferocia contro quei bambini che fino a poco prima istruiva ad essere perfetti comunisti.
Grieco in questo modo finisce per rendere fin troppo chiare le motivazioni della schizofrenia del mostro. La recitazione di Malcolm McDowell inoltre contribuisce a questo surplus informativo sul personaggio, finendo per risultare sempre troppo sopra le righe. Se ad esempio le smorfie pazzoidi di Jack Nicholson in Shining (The Shining, Stanley Kubrick, 1980) o di Anthony Hopkins ne Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) erano narrativamente situate in un contesto in cui follia e tensione la facevano da padroni, quelle di McDowell si inseriscono in una messinscena spesso troppo piatta, quasi da sceneggiato televisivo.
La cosa migliore nel film è invece la scena in cui Evilenko e Lesiev, il suo inquisitore, si ritrovano nudi in una sala d’interrogatorio combattendo una sfida psicologica che vedrà un solo vincitore.
Ma una buona sequenza non basta a salvare un film che poteva essere un segnale della resurrezione del cinema italiano di genere, ma che invece è finito per essere un’ennesima prova dell’incapacità di quasi tutte le produzioni di casa nostra di uscire da una sorta di limbo in cui si cerca di nascondere la mediocrità con delle presunte ambizioni “autoriali”.
A cura di Alberto Brumana
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