Passione e Vangelo
Intro
L’uscita nei cinema della versione restaurata de Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, a distanza di quarant’anni dalla sua prima proiezione pubblica, ci sembra una buona occasione per spendere anche noi (dopo settimane di clamore mediatico quasi senza precedenti e sicuramente esagerato, ma è tutta acqua al mulino di Mel Gibson che è così l’artefice di uno dei più grandi successi economici della recente storia del cinema) qualche parola su La passione di Cristo (The Passion of the Christ).
In particolare ci sembra interessante organizzare un breve discorso teso a mettere in contrapposizione le due opere.
Per non incorrere in nessuna ambiguità, possiamo affermare che non si vuole in nessun modo mettere sullo stesso piano i due film: da una parte abbiamo infatti una delle opere più riuscite, più perfette di uno dei più intensi poeti e profondi intellettuali che il cinema abbia mai avuto, dall’altra un tipico prodotto del cinema mainstream di hollywood, (forse) tecnicamente a posto, ma discutibile a livello di contenuto e per la posizione morale ed estetica che sembra esprimere.
Oltre al sempre più ragionevole dubbio che il tutto (fanatismo e antisemitismo del regista compresi) non sia che una riuscitissima operazione commerciale.
Al di là delle polemiche sul film e sull’autore, The Passion ci sembra incarnare una modalità cinematografica antitetica (per forma, contenuto e impostazione morale ed estetica) all’opera di Pasolini.
Ci sembrava quindi un buon pretesto per una breve riflessione sulla diversa prospettiva che i due registi hanno scelto per accostarsi al Cristo (e quindi al Sacro).
Senza nessuna volontà di alimentare una bagarre che ha come unico risultato quella di aver creato l’ennesimo record per incasso e numero di biglietti venduti.
Forse ci sono temi e spunti più importanti di cui il nostro presente storico e politico necessita e stimola la riflessione.
Per tutto il resto, per citare le ultime parole di un Maestro che ci ha lasciati troppo presto, «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire.»
Vangelo e Passione
Quale è il mistero per cui davanti e per tutta le due ore e mezza del Vangelo di Pasolini si ha la sensazione effettiva di assistere a una rappresentazione, una messinscena del Sacro, che del sacro mantiene quel senso di mistero e di profonda emozione?
Una sensazione che non solo non è inibita ma, al contrario, è intensificata dagli elementi tipici della poetica del grande autore tesi a una rappresentazione profondamente realistica (valgano a titolo d’esempio generale, le facce, profondamente e poeticamente esaltati da insistiti primi piani, della gente più umile e comune, compresi gli apostoli e lo stesso Cristo) e a tentativi legati a un certo effetto straniante (i soldati di Pilato come squadracce fasciste o Matera e il sud d’Italia come Gerusalemme e la Palestina).
Quale al contrario la sensazione di profondo rigetto, come davanti a un qualcosa di profondamente blasfemo (mi si scusi un termine così usato a sproposito, abusato da tanta critica) e profondamente fastidioso (non solo per i litri di sangue) che penetra nel profondo alcuni spettatori davanti alle immagini (anche solo i fotogrammi, neanche il film) della Passione di Cristo di Mel “Martin Riggs” Gibson?
Una diversa posizione morale, una diversa posizione estetica
Mi sembra di poter dire che la grandezza, l’intelligenza e la qualità dell’operazione pasoliniana stia tutta nella prospettiva e nell’impostazione scelta dal poeta.
Una posizione morale da cui deriva un’impostazione estetica.
Non è solo, quindi l’impareggiabile statura artistica e culturale dei due autori a differenziare i film.
Il punto fondamentale è la posizione morale (forse) prima che estetica da cui entrambi i registi partono.
Che mette in gioco temi capitali come la differente cultura statunitense e europea, o la riflessione sul mostrare la violenza e analogamente il Sacro, al cinema.
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Il problema non è, quindi, il fanatismo cattolico, l’antisemitismo, insomma la valenza (ma c’è?) politica di Passion e del suo autore, ma capire la volontà e la modalità con cui i registi si sono accostati alla “più grande storia mai raccontata”, ma più in generale al Sacro.
Per verificarne la tenuta estetica.
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• Vai all’intervista a Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica di Milano.
• Vai alla recensione di Il vangelo secondo Matteo.
• Vai alla recensione di The passion.
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