Il teatro dell’alta borghesia
Secondo episodio della trilogia dedicata alla società danese, L’eredità rappresenta il capitolo descrittivo-distruttivo dell’upper class di questa nazione. La Danimarca del regista Per Fly e dell’amico nonché produttore Lars Von Trier viene spaccata in tre per riportare sul grande schermo visioni di vita attuale. L’estetica di Dogma 95 viene offuscata da un’etica (neo)realista. L’eredità nazionale e incombente dei padri dogmatici ha condotto Fly a un documentarismo di contenuti e non solo di forma; un ritorno riflessivo alla società contemporanea che il regista afferma di aver derivato da Rossellini, De Sica, Visconti.
Se tutta la trilogia si propone quindi come “messa in scena della realtà”, L’eredità nello specifico esibisce il teatro dell’alta borghesia e il suo fascino (in)discreto attraverso una storia linearmente tragica giocata tra vita e drammaturgia. Maria, la moglie del protagonista, è attrice di teatro, recita per lavoro; Christoffer, dal momento che eredita la responsabilità dell’azienda familiare, lavora recitando, si adatta al perbenismo di sistema e veste maschere diverse a seconda della situazione. Maria sale sul palco del teatro per divenire Giulietta; Christoffer sale sul palco improvvisato (la piattaforma nell’acciaieria) per decretare le decisioni ufficiali alla moltitudine operaia. Nonostante la sua abilità d’attrice, Maria è l’unico personaggio che nella vita non riesce a mentire; Christoffer è invece capace interprete degli script dell’alta società e non ha difficoltà a ingannare il suo più stretto collaboratore.
La contrapposizione tra realtà e rappresentazione, poi, si avverte chiaramente sulla superficie dei personaggi femminili. Maria, solare e sincera, è la donna che Christoffer ama: in lei si incarna la vocazione artistica e la spontaneità nel vivere i rapporti con gli altri a Stoccolma. La madre, cupa e meschina, è la donna che lui deve amare: lei è emblema dei rituali vacui e false formalità della vita a Copenhagen, specchio della seconda moglie che, del resto, è solo in grado di mettere in scena pranzi domenicali correlati di esibizione-dimostrazione dello chef di turno. Per Goffman “la vita quotidiana è rappresentazione”; Fly prende sapientemente in prestito la metafora per descrivere, in una classica struttura in tre atti, l’inesorabile dramma di un uomo che sceglie di sacrificare il suo essere per l’apparire (un moderno dover essere) in quella nuova vita destinata (o ereditata). Christoffer ha lasciato Maria per sposare il lavoro; il dovere ha vinto sulla passione, l’industria sull’arte. È la consapevolezza di tale scelta che colora di tragico il film perché, se il protagonista ha più volte la possibilità di tornare indietro, più volte puntualmente rinuncia. Emblematica in questo senso è l’ultima scena quando Christoffer non si presenta allo spettacolo di Maria e rifiuta così di passare qualche tempo col piccolo figlio: l’eredità di un padre che si suicida è la responsabilità di un’acciaieria che costringe un figlio a lasciare a sua volta il proprio figlio.
L’eredità costituisce il capitolo sulla classe sociale più alta, su quel ristretto ceto di persone che per la loro posizione privilegiata possono guardare gli altri dall’alto verso il basso. La mdp estremizza questo punto di vista proponendo più volte inquadrature fortemente angolate tendenti al plongée sulla platea del pubblico teatrale o sugli operai riuniti. Un totale suggestivo e coreografico sulla massa indistinta di persone e sugli elmetti colorati degli operai per rimarcare un distacco scopico che è soprattutto un distacco interpersonale. Dall’alto, poi, la camera scende con un movimento fluido per farsi strada tra le persone trepidanti e posizionarsi sul palco del teatro o della piattaforma tornando così ad appropriarsi di uno sguardo privilegiato dall’alto in uno spazio decretato alla messa in scena.
Nonostante il film non sia marcato dall’etichetta ufficiale dogma, il confronto col genere e col “fantasma” di Lars Von Trier è inevitabile. La camera è a mano per buona parte del film, ma l’effetto “ondeggiamento” è sapientemente controllato, come pacato e moderato è l’atteggiamento di Christoffer, per accentuarsi solo nei momenti di tracollo psicologico del protagonista (in particolare nella scena amaro-grottesca del tentativo di violenza sulla cameriera al bordo della piscina).
Un’eredità dogma, quindi, accettata e riadatta perché, se Dogma 95 aveva avuto il merito di far ragionare sulla natura del cinema contro la sua massificazione commerciale, L’eredità ha il merito di (ri)lanciare nella sua semplicità un cinema che rispecchia la società e non più solo sé stesso e i suoi padri. Da un manifesto per la democratizzazione dei mezzi a una dichiarazione d’impegno e d’indagine su tematiche popolari. Finalmente un intelligente e studiato esperimento che, schivando il sociologismo facile, porta il grande pubblico a riflettersi (e riflettere) sul grande schermo.
Curiosità:
Nato nel 1960 in Danimarca, Per Fly ha conseguito il diploma alla Danish National Film School nel 1993, ha diretto diversi film per la televisione, tra cui The Little Knight (Den Lille Ridder, 1999), una storia tratta dal racconto per ragazzi Bunny’s Tales della scrittrice Karla Kanin, e il pluripremiato Calling Katrine! (Kalder Katrine!, 1993). Il suo primo lungometraggio è stato The Bench (Benken, 2000), primo episodio della trilogia d’inchiesta sociale e premiato al Festival di Lubecca. Ha inoltre diretto Prop & Berta (Prop og Berta, 2000), un film di animazione realizzato nel 2001. L’Eredità è il terzo lungometraggio di Per Fly, un film che ha ottenuto successo di critica sia nazionale, con 6 Robert Awards (gli Oscar danesi), sia internazionale, ricevendo al Festival di San Sebastian il premio della Giuria per la Migliore Sceneggiatura. Successo di critica come successo di pubblico dato che il film ha battuto Dogville (id., Lars Von Trier, 2003) ai botteghini danesi. Attualmente il regista è impegnato nella stesura del terzo ed ultimo capitolo della trilogia, The Killing, riguardante la media borghesia.
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