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Tra irritazione e rimpianto

Tra irritazione e rimpianto

Pubblicato nel 1997, L’odore del sangue risale al 1979: romanzo scritto da un Goffredo Parise alla ricerca di una via per liberarsi dalle proprie ossessioni. Ora il regista Mario Martone ha trasferito in immagini il sofferto monologo interiore del libro: un’operazione senza dubbio non facile, coraggiosa e meritevole per intenzioni; meno, purtroppo, per quel che riguarda il risultato finale. Innegabile è la volontà di ricerca formale: le scelte registiche, assieme al montaggio – sia visivo che sonoro – costituiscono la parte migliore del film. Quella, per intenderci, che ci permette di continuare a considerare Martone uno dei più interessanti registi italiani in circolazione, anche dopo questo lavoro. Il regista napoletano adopera una certa arditezza di linguaggio, particolarmente nella prima metà del film, grazie all’uso di inserti, di sincopi narrative, di immagini spesso non coincidenti con il sonoro. A ciò si aggiunge una “sana” atmosfera da romanzo novecentesco, uno spleen esistenziale come non capitava da un po’ di trovare: come in certo cinema di Antonioni, in certe pagine di Moravia. L’odore del sangue è la rappresentazione impietosa e desolata dell’incapacità di portare a termine qualsiasi progetto, di mantenere una condotta coerente con le proprie convinzioni. La gelosia che si scatena nel protagonista, l’arresto che contemporaneamente subisce il libro che egli sta scrivendo, costituiscono la reazione della realtà a qualsiasi tentativo di inquadramento, di interpretazione. Un soffio di vento, e si abbatte il castello di carte che ci illudiamo di erigere attorno alle nostre esistenze, a mo’ di muraglia, o almeno a riparo. Tutto questo si avverte – seppur di riflesso dal romanzo – nel film di Martone, e ne rappresenta un non piccolo fascino.

Fascino che tuttavia viene in buona parte offuscato dai lati negativi di L’odore del sangue, che sono molti e gravi. Su tutti, la scelta degli attori, la loro recitazione. Del trio principale (Placido Ardant Giuliani, compaiono insieme anche sulle locandine) Placido è il meno irritante: ma un po’ spento, bolso, incolore, questo sì. Fanny Ardant, sarà per l’accento francese (recita in italiano), è insopportabilmente melodrammatica, sembra che reciti dentro al film, specialmente quando racconta al marito (Placido) le gesta erotiche che prodiga al misterioso giovane amante: a un certo punto Placido, forse non solo per esigenze di copione, fa per strozzarla, e il pubblico un po’ ci spera. Anche Giovanna Giuliani, che interpreta l’amante del protagonista, non sembra discostarsi dalla solita, indebellabile impostazione teatrale riscontrabile in quasi tutti gli attori italiani.
Altro grave difetto del film, la sceneggiatura. L’adattamento dal romanzo risulta frettoloso, non omogeneo, soprattutto nei dialoghi: un tono un po’ troppo letterario, artificioso, a cui si accostano, talvolta, colloquialismi altrettanto improbabili. A titolo d’esempio: il protagonista, che ha da poco finito di esprimersi – dialogando con la melodrammatica moglie – in maniera alquanto ricercata, ad un certo punto afferma: «E’ meglio che vado». Notate che è uno scrittore.
Insomma, le mancanze di L’odore del sangue saltano all’occhio, e se ci siamo soffermati così impudicamente su ciò che non convince è per la sensazione di quello che il film avrebbe potuto essere – e le sue qualità stanno lì a ricordarcelo – e non è stato.

Mario Martone è nato a Napoli nel 1959. Ha diretto, tra gli altri film, Morte di un matematico napoletano (Italia, 1992), L’amore molesto (Italia, 1995), e I vesuviani (Italia, 1997), film a episodi realizzato insieme ad altri giovani registi napoletani.

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