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Quando raccontare è resistere

Quando raccontare è resistere


Ogni scontro bellico del secolo breve ha avuto il suo diarista, qualcuno che la raccontasse dal di dentro, perché chi ne era esterno potesse prendere contatto con la dimensione intima, dolorosa e profonda, del vivere in uno stato di guerra. Anne Frank, Zlata Filipovic, e adesso un’altra donna – la palestinese Suad Amiry – ugualmente disposta a scrivere per raccontare.
Una donna dal curriculum professionale di tutto rispetto, che, dalle pagine del suo rapsodico diario di guerra, pare avere diversi motivi per essere soddisfatta di se stessa. Ha un marito che, dopo venti anni di matrimonio, ha la delicatezza di distrarla dai bombardamenti notturni preparandole un cappuccino, perché «Niente cambia -nemmeno sotto occupazione!». E’ una donna che ascolta Pavarotti, che si interessa dei problemi della sua civiltà (sul suo comodino c’è Storia del pensiero arabo islamico, prontamente sostituita con il più politically correct La ragazza con l’orecchino di perla, in occasione dell’ispezione israeliana in casa sua) e che cerca di ingannare il tempo che deve passare in casa a causa del coprifuoco imparando l’italiano.
Perché oltretutto, mentre i Territori sono occupati dall’esercito di Sharon, casa sua è occupata da una suocera fastidiosa come una malattia, la quale, non troppo provata dalle circostanze, non perde occasione di fare capricci sull’orario in cui preferisce consumare i pasti e sul tipo di piatto in cui vuole che le pietanze le siano servite.
Sono questi dettagli, questa delicata aneddotica quotidiana a svelarci la casa di Suad, e oltre quella una Ramallah diversa, non più solo pista per autobus-bomba, ma città vera dentro alla quale percepiamo l’esistenza di uomini e donne ancora legati ai valori del quotidiano, non ancora piegati e assuefatti alla dimensione alienante di perquisizioni simili a razzie vandaliche, durante le quali è meglio nascondere i gioielli perché «pare che, sradicando le infrastrutture del terrorismo, rubino parecchio», ai coprifuoco sospesi solo per qualche ora (generalmente senza preavviso), ai carri armati che creano ingorghi sulle arterie cittadine. Abitanti di una Ramallah non ancora esausta, che, in mancanza di interlocutori disposti al dialogo, una notte sfogano la loro rabbia in un indimenticabile cacerolazo notturno organizzato dal quartiere: mestolo alla mano, percuotono i loro pentoloni come percussionisti in delirio, e un catartico fracasso d’inferno riempie la città.
Suad racconta tutto questo: senza reticenze e senza sensazionalismi accusatori racconta di come sia la vita dei palestinesi dei Territori Occupati, ma nel farlo mantiene un linguaggio fresco, acuto, delicato, che sottolinea per contrasto la tragicità della cronaca.
Ramallah, Nablus, Gerusalemme, Jaffa, non sono le tappe di un percorso di guerra ma sono i luoghi della geografia sentimentale di Suad: qui c’era la casa del padre, lì ha conosciuto suo marito. La Palestina attraverso gli occhi della Amiry ci arriva come una terra con i colori «del terreno bruno rossastro», del «bianco e del rosa delle orchidee in boccio», «del rosso dei papaveri», e non come il teatro in cui si sta consumando l’Apocalisse. Perché è così che forse i palestinesi riescono ancora a vederla. Come una terra occupata e devastata, ma nella quale, nonostante tutto, la vita e la sua nascosta bellezza non smettono di esistere.

Suad Amiry è un architetto che insegna all’Università di Birzeit. Ha fondato e lavora presso il Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, ed è stata membro della delegazione palestinese presso Washington. È autrice di vari saggi di architettura, con particolare attenzione all’architettura palestinese; il Corriere della Sera ha pubblicato un suo intervento sulle condizioni di vita nei Territori. Sharon e mia suocera, tradotto da Maria Nadotti, è la sua prima opera narrativa.

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