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Il figlio dell’uomo

Il figlio dell'uomo

Il figlio dell’uomo (di Fabio Falzone) *

La figura di Cristo è un archetipo, un mito dell’Occidente, che rappresenta, oltre alle profonde valenze religiose sulle quali ci si potrebbe soffermare a lungo, il dramma e insieme la speranza del mondo cristiano.
Il Gesù che ci presenta Mel Gisbson è l’ennesimo Gesù figlio dell’uomo, prima che di Dio. Esso testimonia una verità personale del regista e di chi, come lui, ha una visione quasi fondamentalista della religione. Cristo, in quanto simbolo che può caricarsi di significati diversi, a seconda chi lo rappresenta, è anche profondamente influenzato dal contesto storico, veicolando messaggi e ideologia da cui nemmeno questo film sembra sfuggire.

Poste queste premesse è possibile trarre alcune riflessioni. La simbologia della flagellazione e crocifissione di questo Gesù secondo Gibson, figlia di una cristianità che vede il mondo come luogo popolato da nemici e diviso nettamente tra fedeli e infedeli, rievoca violente pratiche contemporanee, a partire da certi sanguinosi immaginari religiosi islamici, per passare ai riti celebrativi della Ashura, financo ai sacrifici dei kamikaze e le posizioni prese dalla Casa Bianca in politica estera. Terrorismo, integralismo religioso e risposta violenta al terrorismo, sono infatti gli ingredienti, perfettamente (con)fusi tra loro, che fanno di questa pellicola, un prodotto che è lo stampo fedele del momento storico attuale.

Proprio per evitare la confusione e le pericolose interpretazioni, a vantaggio di chi il Vangelo non l’ha letto e non potrà non confrontarsi con la forza che il cinema riesce a incidere nella memoria, o per chi il Vangelo l’ha letto e vive questa versione come un’esagerata deriva violenta, Gibson avrebbe potuto inserire didascalie esplicative. Ma questo il regista non lo fa. E l’omissione di questo intervento non lascia sul terreno un semplice polpettone americano costato 25 milioni di dollari spesi in effetti speciali e ketch-up.
Non c’è bisogno di una motivazione che preceda il martirio di Gesù o una conseguenza consolatoria che ci dica: c’è stata la ressurrezione. Il massacro fisico è una conseguenza totale alla sua necessità, la sofferenza. Ed è solo il sacrificio su cui si sofferma, solo il dolore fisico l’oggetto su cui la mdp si posa per mostrarci al microscopio lacerazioni e sangue raggrumato, su cui lo slowmotion insiste per lasciarci impresse sulla retina orge di violenza inaudita.
A titolo esemplificativo, i due minuti finali sono così rappresentati: il sarcofago si smuove ed entra un fascio di luce. Il sudario si svuota lentamente, finché l’inquadratura si sposta sul volto di Gesù, splendente sotto i raggi del nuovo giorno. Dall’alto sembra giungere un ordine sordo che solo il Risorto può percepire. Un rullio di tamburi vibra nel cavo della stanza, arrembante. Poi, titoli di coda. C’è da aspettarsi che Gesù, imbracciato lo spadone dell’Apocalisse, possa consumare la sua terribile vendetta su chi l’ha ridotto in quello stato. Si possono aspettare diverse cose, tranne quella di venire a conoscenza di un motivo che ci spieghi la Passione. Le ragioni, più plausibili, sono quelle di una personale spedizione punitiva, condotta dal regista, nei confronti dello spettatore e verso l’imperdonabile mollezza dei cristiani secolarizzati del dopo Concilio Vaticano II.

Nulla viene detto del messaggio d’amore, niente della rivoluzione spirituale lanciata allora da Gesù, e che trasposta ai tempi d’oggi, alla necessità di dialogo interreligioso e politico, trova con questa pellicola e con il potere di raggiungere centinaia di milioni di spettatori, la sua completa negazione e aberrazione.

L’autoflagellazione di Mel Gibson (di Osvaldo Contenti) *********

Prologo futuribile…

Quando tra vent’anni su un display da polso uno spot del webcultura mi inviterà a partecipare al convegno interattivo su “La rivoluzione formale del Cristo di Mel Gibson”, mi verrà da sorridere ripensando allo strepito causato dall’uscita nelle sale italiane de La Passione di Cristo, in quel lontano 7 Aprile del 2004.

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• Vai alla recensione di Il vangelo secondo Matteo.

• Vai alla recensione di L’ultima tentazione di Cristo.

• Vai all’intervista a Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica di Milano.

• Vai all’intervista a Don Aleardo Di Giacomo, parroco della Garbatella di Roma.

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• Vai allo speciale su Pasolini e il Vangelo di Matteo.

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