Intrattenimento americano
America anno zero (di Giacomo Freri) ********
Dopo Killing Zoe (1994) torna dietro alla macchina da presa Roger Avary con un film tratto da un omonimo romanzo di Bret Easton Ellis. Amico di Tarantino fin da quando erano commessi nello stesso video noleggio a Los Angeles, cosceneggiatore de Le iene (Reservoir Dogs, 1992) e Pulp Fiction (id., 1994), Avary riesce nell’impresa che non era riuscita a Mery Harron con American Psyco (id., 2000): trasporre sullo schermo lo stile dissacrante e cinico di Ellis e la sua visione grottesca, se non distorta, della realtà.
In un college americano del New England si aggirano ragazzi che sembrano aver smarrito ogni valore, ogni sogno, e rincorrono disperatamente qualcuno senza capire che non lo raggiungeranno mai, perché, come dice Lauren alla fine, «nessuno conosce nessuno».
L’incipit del film, con la presentazione attraverso un fermo-immagine alla Leone dei tre protagonisti, è straordinario: una scena in “loop” in cui tre avvenimenti che accadono sovrapponendosi tra loro vengono raccontati uno dopo l’altro, con un riavvolgimento delle immagini che fa ritornare indietro la narrazione ogni volta al punto di partenza, per poi ripartire secondo un punto di vista diverso. Da vedere per credere.
La struttura circolare del film, che si apre e si chiude con la stessa scena, rappresenta quindi un universo chiuso, uno spaccato di esistenza da cui non si esce né migliorati, né maturati, in una circolarità in cui ogni personaggio rimane intrappolato, senza via di scampo.
Se il romanzo di Ellis era un attacco ai superficiali anni 80, Avary aggiorna la vicenda, come a dire che la perdita di valori di quel decennio è proseguita, inarrestabile, forse più disperata. E allora l’unico momento che sembra interrompere questo delirio collettivo è la scena del suicidio, filmato da vicinissimo, e reso quindi ancora più disturbante: un momento di follia che forse però sembra meno folle, perché appunto più reale, di tutto ciò che sta intorno. C’è sempre un clima tragicomico che aleggia durante tutta la durata della vicenda: si percepisce il ghigno di Avary, e prima ancora di Ellis, nel raffigurare questo universo svuotato di senso.
Risulta quindi precisa e consapevole la scelta di James Van Der Beek, alias Dawson, ovvero il ritratto del perbenismo e dei sani principi americani, per poi riprenderlo nelle azioni peggiori: controlla l’aspetto della cartigenica che ha appena usato, si masturba davanti a un sito porno, fuma marijuana ad ogni ora, spaccia e fa sesso con chi capita.
Dopo una serie innumerevole di filmetti buonisti e falsamente anticonvenzionali sui college americani, un sano pugno nello stomaco, peccato che la distribuzione lo abbia totalmente ignorato, troppo scomodo forse, troppo poco rassicurante…
L’università dell’intrattenimento… (di Claudia Triolo) *****
In una università che è tutto tranne che un luogo di studio, ci troviamo ad una festa di fine anno, “The End of the World Party”. Qua seguiamo gli sguardi, le azioni e i pensieri di alcuni studenti che ci vengono presentati alla maniera degli eroi dei telefilm: l’immagine si blocca sul primo piano di ognuno e accanto possiamo leggerne il nome. Seguiamo per qualche minuto un personaggio per poi essere risucchiati all’indietro nello spazio e nel tempo, trovandoci di nuovo in mezzo alla festa da un’altra prospettiva. Il rewind è uno dei meccanismi usati dal regista per rappresentare le diramazioni e sovrapposizioni delle azioni e dei pensieri dei suoi personaggi. Ha la stessa funzione l’uso dello schermo diviso a metà (splitscreen) per rappresentare l’incontro faccia a faccia tra Sean e Lauren: i due si parlano e si piacciono, ma soltanto perché hanno equivocato chi hanno di fronte. Queste strategie filmiche a poco a poco diventano ripetitive e noiose; esse rappresentano bene il vuoto ambiente dell’università, fatto di superfici che si toccano ma non comunicano, anche se lo spettatore fa fatica a calarsi in questa atmosfera.
L’effetto più efficace è quello dello sfasamento temporale, il film è interamente costituito da un sovrapporsi di feste, tutte più o meno (esistenzialmente) uguali, in cui lo spettatore, al modo degli stessi personaggi, si perde. Sono ben costruiti i mondi frammentari e individuali dei personaggi, afflitti da una tremenda solitudine e separazione. Non a caso l’unica ragazza che prova un vero sentimento non è che una fugace apparizione per personaggi e spettatori: non esiste veramente fino al momento del suo suicidio, che indica l’impossibilità di vivere in quel mondo per coloro che non ne seguono le deliranti logiche. Il regista, Roger Avary (Killing Zoe, 1994) punta molto su quei personaggi secondari alla Tarantino o alla Trainspotting che divertono con la loro frenesia e schizofrenia maniacale, è vero, ma che a poco a poco perdono anch’essi di efficacia. Più il film va avanti, più si ha l’impressione di essere di fronte ad un teen movie, senza neppure averne la demenzialità e la spensieratezza.
Curiosità: Sean Bateman, uno dei personaggi di questo film (e dell’omonimo romanzo di Brett Easton Ellis) altri non è se non il fratellino del sanguinario Patrick Bateman, protagonista di American Psycho. Buon sangue non mente…
• Vai all’articolo di confronto tra il film di Avary e il romanzo di B. E. Ellis
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