Non si muove
«La pioggia, un motorino per terra. Il corpo bagnato di una ragazzina, la sua giacca a vento, il suo zaino. E’ la prima scena del film. L’incidente è già accaduto, l’immagine è ferma come un quadro. Solo la pioggia si muove. La macchina da presa cade dall’alto, precipita insieme alla pioggia, entra in un casco rosso, vuoto, che si sta riempiendo d’acqua. E’ il cielo che scende in terra. L’angelo che si muove a pietà.» Queste le parole della Mazzantini per il Venerdì di Repubblica.
Si apre così il film di Sergio Castellitto, tratto dal best seller della Mazzantini, sua moglie. La pioggia precipita sull’asfalto e sulle persone, bagnando tutto di sè. In questo movimento verso il basso possiamo leggere il percoso di Timoteo (Castellitto) che, annoiato e infelice, si abbandona al suo istinto, ad un’attrazione verso il degrado, il brutto, la bestialità. Una “caduta” che solo in apparenza risulta negativa: Timoteo è ormai saturo del suo ambiente ricco e per bene, il suo matrimonio appare ormai svuotato e triste.
Il suo percorso principia da una violenza carnale, imposta a Italia (Cruz) creatura disgraziata e piegata dalla vita. Il protagonista si abbandonerà a questa aggressività nel bisogno di vivere qualcosa di più intenso, che sferzi la sua molle, disillusa esistenza. Fino a che non ne diventerà dipendente, allo stesso modo della sua vittima, che docilmente lo accoglierà per bisogno di vincere la propria solitudine. Tale dipendenza si trasformerà presto in passione per una creatura singolare, degradata ma autentica, capace di donargli quel calore estinto nella sua vita precedente.
Se il racconto si fosse fermato qui sarebbe di certo stato molto più convincente e interessante. Purtroppo la Mazzantini ha voluto andare fino in fondo, trasformando la vicenda in melodramma, foulleton, ai limiti del patetismo. Inevitabilmente provoca un distacco e un disagio che compromettono tutto il libro. Nonostante (?) il successo di vendita, il romanzo finisce per restare una lettura da spiaggia.
Se ne deduce che anche il film, rimanendo fedele al testo (non si muove da lì); finisce per essere patetico. Emozionante ma eccessivo. Tuttavia la regia di Castellitto riesce a smorzarne le tinte, narrando con stile semplice, piano, quasi paratattico nel suo essere tutto primi piani e controcampi (paratattico come la scrittura della Mazzantini).
In una fotografia tenue, morbida, non contrastata, spiccano i colori del mondo di Italia. Accesi, mischiati a caso nei suoi vestiti e negli ambienti in cui vive. Col difetto, però, di risultare, invece che autentico, costruito e schematico.
La narrazione intreccia piani temporali diversi, alternando presente, passato e trapassato, rivelando nella giusta misura gli elementi di due racconti distinti: l’operazione della figlia e gli anni della relazione con Italia. Le due storie uniscono alla fine dissolvendosi una nell’altra, quasi cedendosi il turno del loro passaggio nella vita del protagonista: la morte di una sarà la vita dell’altra.
La Cruz interpreta in modo convincente il suo personaggio: la macchina da presa, impietosa, cerca di sottolineare la bruttezza e lei ce la mette tutta per risultare goffa e spigolosa. Ogni dettaglio per peggiorarla: perfino la riga nera fra gli incisivi per spezzarle il sorriso da star. Resta innegabile che sarebbe stato molto più appropriato dare davvero un corpo brutto, secco, cascante e degradato a questa Italia decadente eppur viva.
Appunti visivi:
Italia viene spesso inquadrata nel mezzo di una croce ideale formata da due strade, passaggi sospesi all’esterno dell’ospedale. Quasi ad associarla alla figura di Cristo, che espiò sul proprio corpo le colpe altrui :: Il ricorso continuato al rosso della passione (la scarpa d’Italia, il pallocino, etc. ) dà l’impressione di patinatura e schematismo nell’immagine. Siamo molto lontani dalla maestria dei cromatismi di Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, Pedro Almodovar, 1999) e Parla con lei (Hable con ella, Pedro Almodovar, 2001) :: Gustosi alcuni tocchi di Castellitto, quasi segni della sua personalità ironica e disincantata: la sequenza sulla spiaggia dopo lo stupro (Timoteo confessa il suo delitto scrivendolo a lettere cubitali sul bagnasciuga ma la moglie non se ne avvede); la chiacchierata con la domestica dei vicini, alla quale racconta i suoi segreti dal balcone mentre la moglie dietro di lui telefona; la minzione liberatoria sulle piante di casa che la moglie gli ha raccomandato.
A cura di Francesca Arceri
in sala ::