Il tiranno e il flan
Quando i bambini giocano trasformano la realtà che li circonda con il potere della fantasia. Ma Julien e Sophie non si accontentano di liberare la loro immaginazione: loro vogliono sovvertire le regole che il mondo gli impone. Tutte tranne una, quella che si sono creati per il loro gioco nato attorno a una piccola giostra di ferro che dà il diritto al suo possessore di chiedere qualsiasi cosa all’altro. Ma che cosa può succedere in questa coppia di ragazzini (in cui lui sogna di fare il tiranno da grande e lei di diventare un flan) se il gioco non ha limiti e continua negli anni? Che l’amicizia si trasforma in qualcos’altro, un amore crudele e folle, nel quale ci si ferisce sentimentalmente ma non solo. Il gioco diventa pericoloso: si rischia di essere travolti dai treni, di premere troppo sull’acceleratore per scappare alla polizia, di finire in un blocco di cemento. E così quel mondo favoloso in cui ci si bacia sui tetti delle automobili, ci si presenta agli esami con reggiseno e mutande sopra ai vestiti e quando uno muore vola in cielo, fa spazio a un universo in cui si rovinano matrimoni, non si riesce a riconciliarsi con i genitori, si scende a compromessi con la vita. Finché il gioco riparte e a quel punto è impossibile arrestarlo nel suo procedere di partita-rivincita-spareggi fino all’ultimissima sfida.
E’ anche impossibile guardare le immagini di Amami, se hai coraggio senza pensare al tratto utilizzato da Jeunet per Amélie (Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain, Jean-Pierre Jeunet, 2001) anche se l’idea di questo film è stata scritta anni prima. Il territorio di competenza è infatti molto simile a livello tematico (la morte della madre, l’amore come gioco, la paura di vivere la propria vita, Sophie fa anche la barista come Amélie) e tecnico. Ritroviamo proprio gli stessi colori iperreali, le panoramiche a schiaffo, la musica francese (La vie en rose proposta in quattro versioni diverse) e assistiamo sullo schermo a una realtà che trasfigura in un sogno lucidissimo che confonde il vero con la visione tanto che alla fine ci si può interrogare su quale sia il destino finale reale (?) dei personaggi. Rispetto ad Amélie, però, la storia di Yann Samuell è avvelenata da una dose di cattiveria che la ragazza con la passione per la crème brulée non immaginava neppure. Infatti la sequenza conclusiva bagnata dalla pioggia visivamente è avvicinabile maggiormente a pellicole come Trainspotting (id., Danny Boyle, 1996); Fight Club (id., David Fincher, 1999) e Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999). Julien e Sophie probabilmente non ci rimarranno nel cuore come era capitato al film di Jeunet o alla coppia Forrest Gump-Jenny Curran, però bisogna dire che non vorremmo mai smettere di vederli giocare. I due attori scelgono sempre i toni giusti e si calano perfettamente nello stile del film che regala anche qualche dialogo particolarmente riuscito grazie alla commistione di elementi alti e bassi, al fianco di qualche altra scelta un po’ più infelice (quando la retorica o qualche stereotipo prendono il sopravvento…).
Samuell gioca con la tavolozza di colori e tiene sempre alto il ritmo. Anche senza emozionare in profondità, diverte e coinvolge. Va bene così.
A cura di Claudio Garioni
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