Fino all’osso
Qualcosa si accartoccia danzando con le fiamme. Uno scarto prende fuoco, diventa brace, e viene soffiato via. La sequenza iniziale è la metafora di tutta la pellicola: scorticare la materia in eccesso, levigare in superficie fino a toccare l’osso. Poi bruciare tutto ed eliminare le ceneri rimaste. Alla fine ottenere qualcosa d’altro, diverso da prima, un nuovo essere, simile alle anoressiche figure femminili scolpite da Vittorio (Vitaliano Trevisan); simile alla spina dorsale che campeggia in locandina, un ideale scheletrico, un burattino senza le necessarie fibre muscolari.
Matteo Garrone parte ancora una volta da un personaggio che per mestiere ricerca un personale canone estetico, una bellezza estremizzata e innaturale che gli si rivolterà contro fino a consumarlo. Prende nuovamente spunto narrativo da un fatto di cronaca, a cui accosta un’interpretazione del romanzo di Carlo Mariolini, Cacciatore di anoressiche. Eppure in Primo amore, a fare da protagonista è l’elemento della perversione, della ricerca maniacale di una bellezza ideale. La materia sentimentale, più evidente in L’imbalsamatore (Ita, 2002, 101′); è raschiata via per lasciare spazio alle nudità di un caso patologico, psicologicamente turbato.
A questo danno risalto la mdp di Garrone e la fotografia di Marco Onorato: a un corpo che prima di togliere brani di carne è già vuoto dentro e arido in superficie, alla testa rasata, allo sguardo soggettivo vacuo e tremolante, alle braccia segnate da vene gonfie e ai polpastrelli che sembrano carta vetrata.
In L’imbalsamatore la mdp ci raccontava dall’esterno le vicende di tre personaggi, oggettivamente, in Primo amore invece essa acquista uno sguardo soggettivo, instabile come la calma spietata di Vittorio. Il risultato è angoscia, centoquaranta minuti di inquietudine e tensione irrisolta tra essere e nulla. “Essere”: come la scultura mortale del carnefice sulla vittima, che sintetizza un oggetto del desiderio, e “nulla”: la composizione scheletrica che si compiace e infine si ribella, mutando in arma fatale.
La pellicola non smentisce il talento del regista, essenziale nelle annotazioni psicologiche, insistente nel dettaglio fisico, efficace nella scelta delle ambientazioni, della fotografia fuori fuoco, e dell’esaltazione cromatica e luminosa. Un linguaggio visivo accompagnato da ottime interpretazioni che fotografano da sole, senza fronzoli, situazioni psicologiche inspiegabili.
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A cura di Fabio Falzone
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