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La fredda montagna di Hollywood

La fredda montagna di Hollywood

Nella cittadina rurale di Cold Mountain, una bellissima ed elegantissima Penelope aspetta il suo Ulisse, non più vincitore di ritorno da Troia ma disertore perdente della Guerra di Secessione. Nella più classica e stereotipata epica pionieristica americana, il regista/sceneggiatore Anthony Minghella ci porta attraverso una carrellata di personaggi tipici del genere: il cattivo che insidia la bella per impadronirsi della fattoria, il predicatore donnaiolo, il vagabondo ubriacone in cerca di riscatto e via di questo passo. Tuttavia sono proprio i personaggi di contorno a salvare il film, il cui plot principale brancola nel buio della scontatezza fino ad un finale affrettato e raffazzonato (il che stupisce, in un film di due ore e mezza). Tutti gli attori brillano, in particolare le interpreti femminili: la Kidman è bellissima e fragile, Renée “Bridget Jones” Zellweger regge mezzo film sulle sue spalle, Natalie Portman recita i cinque minuti migliori. Peccato per la trama principale, perché gli spunti erano buoni: la vera “montagna fredda” è quella che i due protagonisti creano dentro di sé per proteggersi dagli eventi, ma tutto questo è pressoché invisibile nel film, e viene relegato in uno scambio di battute di trenta secondi.
Tecnicamente il film è impeccabile, forse troppo: la fotografia è pulitissima e patinata, il montaggio scolastico, la sceneggiatura scandita come una partitura di Debussy, ed è proprio questa perfezione che non convince. I buoni sono buonissimi, i cattivi cattivissimi, la tempistica delle emozioni calcolata al fotogramma, come un meccanismo ad orologeria: dopo cinque minuti lo spettatore si sente plagiato, come se qualcuno continuasse a sussurrargli all’orecchio: “adesso piangi, adesso indignati, adesso ridi”. Le emozioni sono forti ma sterili; un buon esempio di questo è dato dalla rappresentazione della violenza: sempre molto insistita, legata ad immagini forti ma completamente irreali, è chiaramente mirata a catturare la morbosità e il sadismo del pubblico piuttosto che ad esprimere una cruda realtà.
In generale, ogni minimo elemento di realismo in questo film viene programmaticamente immolato sull’altare dell’immagine: non si può non sorridere quando la Kidman, dopo una terribile fuga sulle montagne in mezzo alla neve, costretta ad andare a caccia per sopravvivere, si trova pettinata e vestita come se si stesse recando a un cocktail party (ma in nero, in modo da creare un bel contrasto con la neve bianca). Le stupende scenografie naturali in cui si svolge la vicenda, girate nell’Est europeo e spacciate per il South Carolina, danno un perenne tocco di poesia al film che non è mai visivamente squallido; fa eccezione la sequenza iniziale della guerra in cui i due cannoni e i quattro soldati presenti, nonostante siano moltiplicati al computer in un paio di inquadrature, fanno rimpiangere le scene di massa del capostipite Via col vento e di altri film similari, a cui Cold Mountain si rifà costantemente.
La trama da feuilleton e la fotografia patinata piaceranno certamente agli amanti del genere, che non si faranno tanti scrupoli su realismo e fedeltà storica; l’aderenza ai cliché epici hollywoodiani è maniacale (e la messe di nomination ne è lo specchio); il ritmo è abbastanza sostenuto e complessivamente, se l’intento è di passare una serata a popcorn e relax davanti ad un film frivolo e politicamente corretto, lo spettatore non rimarrà insoddisfatto.

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