Variazioni sul tema
“A Perfect human” è un cortometraggio sperimentale del 1967 di Jørgen Leth, amato da Von Trier, all’epoca undicenne, che confessa di averlo visto venti volte.A distanza di 34 anni il regista contatta l’anziano maestro per proporgli quello che in apparenza è soltanto un gioco, un divertimento: rifare il film cinque volte cercano di rispettare delle condizioni imposte e decise dallo stesso Von Trier, per mettere il più possibile in difficoltà l’autore.Le condizioni sono incredibilmente ardue: inquadrature di soli dodici fotogrammi, location impossibili, trasformare il film in un cartone animato (genere odiato da entrambi i registi). Un gioco si diceva, certo terribilmente sadico (aggettivo ricorrente nelle critiche alle opere vontrieriane…) ma forse c’è di più: come confessato dal danese stesso quello che gli interessa non è rifare un film (di per sé già bello e perfetto) ma compiere una verifica; mettendo il più possibile alle strette la sua vittima farne emergere il suo lato più profondo e sincero.
Se in apparenza può sembrare l’ennesima dimostrazione dell’incredibile sadismo e presunzione del creatore di dogma, incarnati questa volta in un’inutile esercizio di stile (e come tale è stato rifiutato da alcuni critici nostrani) il film è una profonda, illuminante e anche ironica riflessione sul cinema secondo Von Trier.
Il regista non si smentisce, continua a dividere il suo pubblico tra fan incrollabili e radicali detrattori (nessuno, oggi, come lui divide pubblico e critica) e qui si mette nei panni del sadico e fanatico (non senza ironia, impersonificando proprio quello che i detrattori pensano di lui…); ma il risultato va ben oltre.
I cinque remake sono piccoli gioielli ( in particolare colpiscono il primo e il quarto, splendido esempio di animazione digitale) e la sensazione, al termine dei 90 minuti, è quello di conoscere con più precisione cos’è il cinema per il regista. Non è una cosa da poco (ovviamente a chi interessa…).
Il pensare il processo creativo come un cammino in cui si cerca di risolvere degli ostacoli sempre più difficili da superare, stabiliti da una mente sadica e al tempo stesso beffarda può essere presa come prospettiva illuminante non limitata solo al film in questione.
In tale prospettiva non viene forse naturale pensare al girare un film con scenografie da messinscena brechtiana in uno spazio totalmente astratto e chiuso come a un’ostruzione del tutto simile a quelle che il regista impone a Leth? Anche tutte le conditio sine qua non del manifesto Dogma (luci naturali, macchina a mano, niente colonna sonora etc.) possono essere viste come ostruzioni analoghe: il film quindi non rimane solo un gioco sadico di un genio maligno nei confronti di un vecchio regista amato, ma diventa una confessione straordinariamente sincera del cinema secondo Von Trier.
Più che un divertimento, quindi, forse un manifesto programmatico.
Apparentemente vicino ai mitici “Esercizi di stile” di Queneau (dove però le 99 variazioni partivano da un episodio di banalità quotidiana, un esperimento sul linguaggio unico nella sua completezza); in realtà più simile a certe pagine di musica (le variazioni su tema già preesistente e spesso di pari importanza, dove l’esperimento è nello stesso tempo verifica e omaggio).
Non per soli adepti vontrieriani, ma certo una conferma per chi teorizza il sadismo del creatore di Dogma. Per chi odia (e non sono in pochi) Von Trier, forse è meglio lasciare perdere.
Per chi al contrario lo considera il genio di fine millennio una chicca imperdibile.
Orribile la versione doppiata.
Curiosità: il titolo originale tradotto letteralmente sarebbe “Le cinque ostruzioni”, dove ostruzioni è un termine calcistico. Leth è infatti autore di un film sul calciatore Michael Laudrup.
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