Ulisse che visse due volte
Scilla e Cariddi. “Son de mar” rappresenta l’ennesima variazione sul tema del melodramma, storia di un amore bruciante, totale e nondimeno contrastato tra un uomo e una donna. Tra due mondi lontani, fatti però della stessa sostanza e tuttavia destinati ad incrociarsi e mischiarsi per poi inevitabilmente sciogliersi e dissolversi. Ulises e Martina incarnano un modo di vivere l’amore: un sentimento fatto di cibo (pretesto per il quale si conoscono); musica (quella che Martina fa ballare a Ulises, quella che lui le insegna) e prima ancora corpo, istinto e pulsione recondita, vero perno del loro rapporto. Non di parole: i due parlano poco, scegliendo piuttosto il sesso come veicolo di comunicazione (a tale proposito è emblematica la pressocchè totale assenza e inconsistenza di spiegazioni verbali da parte di Ulises dopo un silenzio di quattro anni, distacco colmato ancora una volta, inevitabilmente, con il contatto fisico). Le uniche parole pregnanti non sono dette, ma lette o recitate (quindi non sono proprie, pur utilizzate per esprimere la propria dimensione interiore): quelle dell’ “Eneide” che lui le legge in occasione del loro primo incontro e soprattutto quelle dell’ “Odissea” ripetute ossessivamente per tutto il film, scandendo gli amplessi e le riconciliazioni della coppia. Il passo omerico citato riguarda la descrizione da parte dell’eroe del suo incontro con Scilla e Cariddi, i due spaventosi mostri marini posti alle estremità dello stretto di Messina per stritolare e dilaniare i viaggiatori che lì avessero deciso di avventurarsi. I serpenti dalle immense volute non lasciavano scampo al viandante, sul quale ineluttabile si richiudevano le acque. Se Omero salva Ulisse, restituendolo alla sua Itaca, nel canto XXVI della “Divina Commedia” Dante affonda l’imbarcazione dell’uomo e la sua ciurma: è la stessa sorte che attende i due amanti del film, avvinghiati dai mostri generati da un amore puro solo inizialmente e poi insano, corrotto dal dubbio, corroso dal tempo, consunto dal rimpianto. Le parole dell’opera omerica se pronunciate nella prima parte del film assumono valore quasi prolettico, anticipando come si evolverà la vicenda, che ne sarà dei personaggi e del loro amore (senza dimenticare che tutto il film è strutturato in flashback, dato che già la prima sequenza ci mostra il corpo senza vita di Ulises, e che la leggenda raccontata da Martina suona subito come una profezia).
Spettri di ritorni e d’amore sommersi. Un amore condannato a morte, come coloro che si sono imbarcati sulla “Martina” prima, sulla “Son de mar” poi: è la chiatta de “L’atalante” di Jean Vigo, l’unico angolo al mondo dove i due giovani possano rifugiarsi, dove possano vivere finalmente il proprio amore. Ma è un’imbarcazione in cui è stata praticata una falla: e non dall’antagonista Sierra, bensì da Ulises stesso, dalla sua insaziabile sete di conoscenza, dall’ansia di sperimentazione, dall’inquietudine di avvertire dei limiti. Sulla “Son de mar” Sierra ha introdotto anche un alligatore, ennesimo mostro anfibio, suo ideale alter-ego: nella sequenza iniziale lo abbiamo visto boccheggiare, sospinto dopo il naufragio sulla spiaggia e lì arenatosi. Anche per Sierra, come per Martina e Ulises, vi è un unico destino, naturalmente di sconfitta, di morte, anche lui è stato travolto dal loro amore e spazzato via, senza che questo costituisca la giusta punizione per un’effettiva cattiva condotta. Egli non ha colpe particolari se non quella di essersi abbandonato pure lui ad una tale passione da perdere, come il suo coccodrillo, la capacità di orientarsi e di contrastare le onde. La sequenza (abbastanza pregevole in realtà) dell’affondamento dell’imbarcazione segna l’inabissarsi di un mondo di tracciati individuali che finiscono per incrociarsi e condizionarsi vicendevolmente in un’ottica quasi kieslowskiana, chiudendo un cerchio e riallacciandosi con l’incipit del film (probabilmente ispirato ad un’altra storia d’amore impossibile, “Il fantasma e la signora Muir” di Joseph L. Mankiewicz, e cos’è Ulises una volta riapparso nella vita di Martina se non un fantasma appunto, come dice anche Sierra?); che ne svela dal principio il vero, assoluto protagonista, il mare, un elemento spesso associato all’idea umana dell’infinito, esattamente come l’amore. E’ il mare che scorre eternamente in mezzo a Scilla e Cariddi, lo stesso che separa Martina e Ulises: quando lui decide di seguirlo, attraversando “tutti gli oceani del mondo” per capire ciò che già avrebbe dovuto sapere, quando entrambi scelgono di intraprenderlo, fuggendo incontro alla morte che li dividerà definitivamente. Infine tutta l’acqua di quattro anni smarriti per strada, un mare di incomunicabilità solo sondato in un appartamento-prigione e mai sconfitto del tutto, un diluvio universale che possa lavare gli uomini dai propri peccati.
Bigas Luna ha autorizzato per questo film a parlare dell’inaugurazione di una cosiddetta “fase bianca” all’interno della sua produzione, contraddistinta da un’iniziale “fase nera” (“Caniche”, “Angoscia”) e da una successiva “fase rossa” (aperta da “Prosciutto prosciutto”) che segna il passaggio da un cinema più cupo a uno più incentrato sulle passioni. Come il regista stesso sottolinea è il percorso inverso rispetto a quello di Goya, che da tele molto luminose passò a tonalità più scure. Bigas Luna ha quasi sempre firmato la sceneggiatura dei suoi film: “Son de mar” è invece tratto dal romanzo omonimo di Manuel Vicente, vincitore nel 1998 del Premio Alfaguara, che contiene molte delle ossessioni del regista quali il sesso,il cibo e la morte.
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