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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Corso Salani

La storia più antica del mondo, una storia d’amore, finita, che viene rivissuta attraverso le parole di una donna che racconta ad altre donne l’amore vissuto nelle Ande un anno prima.Siamo in una cinema altro, che parla in lingua spagnola, la comprensione è possibile grazie ai sottotitoli. Eppure, anche se non è una storia tipicamente italiana, è più vicina che mai.

Che cosa significa la tua scelta di girare in una lingua straniera e in posti così lontani dall’Italia?

Corso Salani: Tenevo molto al Cile, era un posto dove ero stato e dove volevo tornare. Avevo in mente Santiago, il suo ambiente. Per me è gravemente limitante costringersi a fare “le storie italiane”, non voglio trovare dei compromessi, che sarebbero delle limitazioni. Ho molto rispetto per il pubblico, ho rispetto per la voce dell’attore e per la sua recitazione, sarebbe impensabile fare un doppiaggio del film in lingua italiana.
So che non è certo una scelta commerciale, ma è una scelta mirata e l’unico modo per avere una prova attoriale che renda al cento per cento.

Lentamente, da Adele, la protagonista femminile, si scioglie un racconto di parole che diventano immagini di un incontro tra un uomo e una donna, la loro passione nata dal nulla, ma così intensa e naturale. E’ bellissima la scena di sesso tra Adele e Alberto, con la macchina da presa vicina ai due corpi intrecciati, talmente vicina da perdere spesso il fuoco, rendendo l’immagine come dipinta e sfumata nell’ombra, come un quadro polveroso che nasconde e mostra al tempo stesso un’intimità priva di vergogna.

Si viaggia in questo film, spesso i posti sono come sfondi che raddoppiano e intensificano l’interiorità dei personaggi. Cosa significa per te andare via, viaggiare, scoprire posti diversi?

Corso Salani: I film per me nascono da desideri, anche, per esempio, il desiderio di trascorrere del tempo in un certo luogo, e passare lì il tempo lavorando. E fare film in questo modo diventa un’occasione per affrontare paesi diversi, posti non necessariamente belli, ma in cui ci si possa immergere. Vorrei che Palabras fosse considerato un film cileno per questo motivo, perché è stato fatto con affetto in e per quel paese.
E’ una mia idea personale, una mia scelta, senza polemica, ma non mi sono mai sentito partecipe del panorama cinematografico italiano. Anche se ho girato con difficoltà ho sempre avuto la massima libertà per fare quello che desideravo.
All’interno della storia, poi, le inquadrature dei paesaggi diventano relativamente importanti. I luoghi si trasferiscono nel film da certe suggestioni e da pochi spunti che la macchina da presa cattura. La parte più importante accade dentro i personaggi e gli ambienti contribuiscono a formarli, a fare da sfondo suggestionante alle loro storie.

Adele racconta una storia conclusa, un amore che non si è mantenuto eterno e idilliaco, ma che è finito. E il racconto che lei ne fa è un modo per riviverlo ancora una volta, con un’intensità che da lei si riversa sulle sue amiche e sugli spettatori.
E i luoghi così sperduti delle Ande, freddi e rocciosi, danno un senso di instabilità, come se le rocce, Adele e Alberto e la storia stessa continuassero a traballare e tuttavia si mantenessero vive fino all’ultimo, con caparbia.
E il momento in cui l’amore cambia, quando sembra impossibile semplicemente che continui, Adele lo percepisce nel silenzio, guardando da lontano Alberto che parla con un amico. Lei sta ballando con un ragazzo in un locale dove ha appena cenato, e osserva Alberto tra i corpi delle persone che ballano e che impediscono continuamente la visione. Adele sbircia la fine dell’amore, che come è venuto riparte, si allontana, come se il tempo fosse terminato.
Le rimangono le parole, una memoria, una storia che, raccontata, ritorna a vivere.

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