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cultura dell'immagine e della parola

God remember America

God remember America

Dio benedica l’America

Che il Dio degli uomini perdoni l’America, di fronte a gesta di carità ed umanità come quelle della squadra scelta di specialisti tattici del tenente Willis (peccato che un attore del suo carisma si faccia sempre coinvolgere in operazioni atte a sfruttare quello che oramai è il suo clichè di eroe generoso e lacero alla meta). E soprattutto che il Dio del cinema si dimentichi dell’ultimo film di Antoine Fuqua, un paio d’ore di puro imbarazzo che si scioglie in risate liberatorie quando le tette della Bellucci fanno, precedendola abbondantemente, il loro ingresso in scena, con la legittima proprietaria che comincia a biascicare le sue battute, rese ancor più irritanti da un doppiaggio della medesima incredibile al punto da far rabbrividire la Chiara Mastroianni del videogame Atlantis. Un cinema fatto (o sfatto) di totale vuoto di idee, ricattatorio nei confronti dello spettatore, la cui commozione e il cui coinvolgimento cerca odiosamente di suscitare proponendo immagini (anche documentarie) di cataste di cadaveri trucidati brutalmente, capace solo di qualche buona scena di guerriglia da parte di un regista che nasce scimmiottando il cinema d’azione hongkonghese.

The Truman show

Negli occhi truci e disillusi dell’eroe che ne ha viste così tante e tuttavia finisce per crollare e illudersi ancora, vinto dal rimorso della cieca obbedienza all’ordine, dalla compassione verso i deboli e, non ultimo, dal fascino della dottoressa, in quegli sguardi che incrociano quelli minacciosi dei negracci cattivi e quelli, prima spaventati e infine riconoscenti, dei negretti buoni c’è lo sguardo di un intero paese e il senso profondo della celeberrima “dottrina Truman”, che di quel paese regola dal secondo dopoguerra la politica estera: non a caso la combriccola ha nome in codice “Aquila uno”, e sappiamo come l’aquila sia simbolo stesso degli USA e del loro punto di vista sopraelevato e privilegiato sulla politica mondiale, un occhio infallibile simile a quello di Dio. I soldati mandati a scorticarsi l’anima in Nigeria non sono solo lì per conto degli Stati Uniti, sono gli Stati Uniti stessi e incarnano la posizione di chi, secondo quell’asfissiante retorica e presunzione d’autorità tipicamente americane, interviene esclusivamente per tutelare la propria gente e finisce per venire tirato dentro dalla necessità, dalla richiesta altrui e dal proprio senso di responsabilità verso l’Uomo e le minoranze la cui libertà risulta fatalmente minacciata.

Aquile di libertà su savane in fiamme

Ma, posto che a un film così possa essere riconoscita una qualche validità, essa consiste nel fatto che nel voler comunicare tali ragioni patriottistiche esso ci rimanda (in modo involontariamente più realistico) l’immagine (e il senso) dell’esatto contrario: i valorosi americani si intromettono nelle vicende interne di un paese, non per mettere ordine come potrebbe fare una forza multinazionale di pace, ma privilegiando arbitrariamente una fazione a scapito di un’altra (lasciando da parte il fatto che non si capisce su quale base storico-politica venga compiuta una distinzione buoni-cattivi assolutamente schematica e una relativa equivalenza indifesi-aggressori evidentemente poco credibile); mentre i profughi della missione vengono promossi dal rango di “cose” (come afferma testualmente uno dei soldati, figure per nulla sbozzate e identificate solo con la loro specifica mansione bellica, in un contesto però dove questa passa in secondo piano rispetto ai dilemmi della coscienza) per risalire però solo fino al grado di “cose da proteggere”. Il raid aereo finale, salvifico per gli eroi assediati, racchiude tutto il senso di un diluvio universale purificatore, atto di forza dall’alto volto a imporre il proprio volere, cancellando tutto ciò che gli si para davanti, radendo al suolo ogni differenza e valore di confronto. E suona estremamente falso il grido conclusivo di nuova libertà che si leva attorno ad Arthur Azuka, ennesimo fantoccio di una regione senza pace da cui Dio se n’è andato da tempo (come si dice all’inizio, concetto ribadito dalle tante violenze perpetrate in presenza di croci e in luoghi consacrati). Tornato per l’occasione, sotto spoglie a stelle e strisce, non dimenticherà quei soldati (come viene detto alla fine); ma anche Lui almeno questo film (si fa per dire) sì. Quando gli sceneggiatori Lasker e Cirillo realizzarono nel 1995 la prima stesura de L’ultima alba si ispirarono al film Quelli della “San Pablo” di Robert Wise (1966); storia di un marinaio che lotta per salvare un gruppo di civili. Il compito di addestrare il cast per interpretare gli uomini della squadra speciale è stato affidato a Harry Humphries, militare decorato nel corpo speciale della marina degli Stati Uniti e contattato anche da Ridley Scott per Black Hawk Down. Fuqua ha insistito per far interpretare i rifugiati ad autentici africani, molti dei quali hanno vissuto esperienze analoghe a quelle del film nella realtà.

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