hideout

cultura dell'immagine e della parola

Trappola per un marito insensibile

Trappola per un marito insensibile


Con il suo decimo film Rolf De Heer, regista australiano nato in Olanda, torna al genere thriller dopo 16 anni quando, con “Incident at Ravent’s gate”, Hollywood si accorse di lui. “Alexandra’s project” racconta il lato oscuro che si cela sotto l’apparente routine di una tipica famiglia borghese. Quando Steve, il marito prestante e autoritario interpretato dalla popolare star australiana Gary Sweet, torna a casa nel giorno del suo compleanno, la moglie gli ha preparato una festa a sorpresa diversa dalle altre. Sulla tv trova una videocassetta con scritto “Play me”, la inserisce nel videoregistratore, scatta la trappola e inizia il gioco crudele. La videocassetta non è letale come in “The ring” (Gore Verbinski, 2002) ma forse l’effetto è ancora più forte. Alexandra, interpretata da Helen Buday, attrice teatrale di grande talento, si esibisce in un crudo e lucido monologo/requisitoria sull’ insensibilità sessuale dell’uomo che non conosce e non rispetta i tempi dell’erotismo femminile. Attraverso una recitazione corporea e sensuale, la Buday ci descrive senza censure le frustrazioni che ha subito il suo “tunnel dell’amore”.

Alla ricerca del cinema puro
Per De Heer non è importante l’impianto narrativo, a lui interessa trasmettere l’emozione, la fisicità del cinema puro. La gincana tortuosa della mdp lungo il viale tra le villette a schiera all’inizio del film con il repentino passaggio dalla notte al mattino è già una pre-visione di ciò che accadrà. La regia utilizza spesso primissimi piani degli attori che avanzano e si allontanano dallo schermo con movimenti sempre in profondità. La colonna sonora del compositore Graham Tardif lascia spesso spazio ai rumori e ai suoni naturali con l’effetto di amplificare la sensazione di angoscia. Molto curati i colori e l’illuminazione: i toni caldi della casa diventano presto una monocromia blu. Le fotografia nitida degli esterni contrasta con le immagini degli interni in cui la combinazione di figure ed angoli rende le inquadrature quasi astratte evocando una inquietante geometria della follia. La presenza ossessiva di cineprese e tv rende infinito il gioco realtà/finzione che culmina nel crudele fermo immagine della famiglia unita e sorridente.

La famiglia in nero
“Alexandra’s project” chiude una (non ufficiale) “trilogia nera sulla famiglia” cominciata con due tra i migliori film del regista, “Bad boy Bubby” (1993) e “La stanza di Cloe” (1996). In quell’occasione i temi della patologia sessuale e della dissoluzione del nucleo familiare erano filtrati attraverso lo sguardo dei figli, qui spetta alla moglie gridare la sua umiliazione. La tensione non cresce nello spettatore attraverso colpi di scena ma dall’accostamento di un rigoroso “stile Lynch” (“Strade perdute”, 1996) con crudeli tematiche “alla Fassbinder” che crea un lento e insinuante incubo claustrofobico, alla fine del quale la brutalità sessuale di Steve, annullando il confine tra piacere e dolore, diventerà sado-masochismo. “Salute Papà, salute!”

Vai all’intervista al regista Rolf De Heer

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»