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Per il suo, il nostro piacere

Per il suo, il nostro piacere

Kitano ancora una volta spiazza e diverte, ancora una volta in quel di Venezia: e una volta in più fa storcere il naso a diversi critici: secondo alcuni un film come Zatoichi nemmeno dovrebbe entrare in una mostra del Cinema, figurarsi poi vincere il Leone d’argento e il premio alla regia!
L’anno sorso Dolls: incontra grande favore tra il pubblico, viene accusato di essere furbo ed “estetizzante” da certa critica. Era un film doloroso, quasi tragico, poetico quant’altri mai nell’esperienza cinematografica del regista.
E ora Zatoichi: saga di un leggendario personaggio del Giappone feudale, massaggiatore cieco, micidiale virtuoso di katana (l’affilatissima spada dei samurai); eroe degli oppressi e dei deboli.
Anche questa volta grande calore da parte del pubblico, freddezza dai critici: anche il premio alla regia credo sia un riflesso di volontà popolare. Il film è divertente dall’inizio alla fine, d’una violenza così grottesca ed efferata da risultare divertente, proprio perché palesemente finta e grandguignolesca: e tra un combattimento e l’altro (ottenuti con effetti computerizzati; Zatoichi è un guerriero così abile e veloce che dei suoi colpi di spada non si fa in tempo a vedere che il risultato: assurdi getti di sangue, ricordano un episodio di Monthy Pyton-The meaning of life); nei momenti di pausa tra gli scontri dunque Kitano piazza i siparietti comici a lui, ex-cabarettista, tanto cari: meno naif del solito, alcuni davvero irresistibili. Questo almeno è quanto si percepiva nella sala – strapiena – in cui ho visto il film.
E d’altronde nemmeno Kitano si prende molto sul serio, sappiamo bene che a opere “serie” ama alternare momenti più rilassati, quando non palesemente scherzosi (ricordate Getting any??). In fondo Kitano fa film per divertirsi, scrive, dirige e monta ciò che al momento lo stimola di più, attento solo a soddisfare sé stesso: se vogliamo, è una caratteristica degli artisti più grandi.
Il pubbico questo lo capisce, e finchè accetta di seguire Beat Takeshi nel suo percorso lo fa con entusiasmo: un giorno probabilmente la spinta si esaurirà, sarebbe strano il contrario.
Godiamoci allora il momento, e chi vuole storcere il naso continui pure a farlo: peggio per lui.

(Il finale del film è grandioso: un tip tap indiavolato, furioso, un crescendo entusiasmante: è la festa per Zatoichi vincitore, ma anche la festa del film che termina, dopo centoventi minuti, e che, come in ogni hana-bi/fuoco d’artificio che si rispetti, ci riversa negli occhi il suo gran finale. Tra poco si abbasseranno gli occhi, ci si dovrà alzare. Ma lo faremo col sorriso sulle labbra, ancora un po’ emozionati: è poco?)

(Nota: dopo la visione di Kill Bill. Il discorso di qualche riga più sopra dovrebbe valere anche per il film di Tarantino, è indubbio infatti che anche quest’ultimo costituisca un “capriccio” simile a quello di Kitano. Per coloro ai quali Kill Bill è piaciuto, quanto detto è esportabile, dunque. Però io ho comunque trovato Zatoichi molto più ingenuo e sincero, per niente pomposo, compiaciuto. Al contrario di Tarantino, Kitano strizza l’occhio allo spettatore, chiede ironicamente pazienza, dice: vediamo un po’ se questo vi piace, come è piaciuto a me.
Poi si va a vedere Kill Bill, e la sensazione è quella di essere considerati alla stregua di tante oche da foie-gras: piedi inchiodati, collo bloccato, qualcuno a forza ci ingozza di bambinesche baracconate.
E sta ad ognuno accettare o meno; ma che opere così simili per certi aspetti, Zatoichi-KillBill, siano tanto profondamente lontane nello spirito in cui vengono presentate, questo è – al mio debole parere – innegabile.)

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