Un amore chiamato pellicola
“Nel mio film sono tutti attori veri, non c’è nesuna stronzata al computer, non sopporto più quella merda. E’ tutta roba originale fatta con la cinepresa sennò tanto valeva che mi masturbavo col Nintendo. La cgi (computer graphic image) sarà la morte del cinema nel giro di dieci anni.”
Quentin Tarantino, a proposito di Kill Bill
Riecco Tarantino. Sei anni di silenzio, sei anni di attesa per tornare ancora una volta a stupire, a far discutere, a spiazzare con un film che, come “Jackie Brown”, si distacca, ma solo in modo apparente, dal suo primo cinema.
Solo in modo apparente, si è detto, perchè, se gli stilemi del cinema tarantiniano, quelli che l’hanno mitizzato e reso un’icona del “pulp” nel giro di pochi anni e l’hanno assurto a genietto-caposcuola del nuovo cinema indipendente americano, sembrano essere spariti ( niente più dialoghi d’antologia, decostruzione dei piani temporali e bassifondi della malavita); lo spirito da cinefilo incallito e innamorato della pellicola, a prescindere da cosa quest’ultima abbia impressionato, torna più che mai con prepotenza, in modo esplicito, quasi spudorato.
In Kill Bill l’amore per il cinema, di tutti i generi e tutte le epoche, trasuda da ogni inquadratura e da ogni sequenza, da ogni personaggio, costume o dettaglio: Tarantino parte da Leone per arrivare al cinema d’arti marziali (con un pezzo di flamenco a fare da colonna sonora!); in un caleidoscopio citazionistico da capogiro, dosando però ogni ingrediente, cambiando stile visivo e rotta anche nella stessa sequenza, portando l’azione al climax drammatico per poi smontare tutto con una battuta stridente, inaspettata.
Il cinema di Tarantino è il cinema autoreferenziale per eccellenza, da sempre. E in questo caso lo è ancora di più: la storia appare un pretesto, una “buona ragione” per imbracciare la macchina da presa e spingersi oltre ai limiti consentiti dal mezzo. Se in precedenza Tarantino aveva costruito i suoi film sulla base di grandi sceneggiature, qui accade l’inverso. La sceneggiatura quasi non esiste, e ciò volutamente, per dare libero sfogo e centralità alle immagini e solamente a quelle.
In questo cinema d’inizio millennio in cui il trionfo del digitale rende tutto possibile (oltre ogni limite dell’immaginazione) ma anche tutto così impalbabile nella sua virtualità, Tarantino non fa altro che accatastare corpi straziati, mutilati e martoriati, sangue a fiumi, teste mozzate in lattice alla Dario Argento, modellini di aerei che attraversano modellini di città. E’ tutto finto, artificiale, ma è un’artificialità esibita quella di Tarantino: tutto l’opposto dell’artificialità del cinema digitale che invece cerca di dissimulare sempre più la sua virtualità, per tentare di rendere il più possibile simile alla realtà ciò che di reale non ha nulla. E non possiamo non notare una parodia degli agenti di Matrix, replicabili all’infinito ed infrangibili, nella sequenza mozzafiato del ristorante giapponese, dove Uma Thurman fa a fette (nel vero senso della parola) ottanta persone, non a caso, in vestito nero e camicia bianca.
Sta proprio qui la forza del film, nella sua presa di posizione forte ed indiscutibile nei confronti del Cinema, inteso proprio nella sua fisicità.
E’ tutto un gioco, come in fondo lo è sempre stato, e Tarantino non ci vuole lanciare alcun messaggio, ma il suo cinema è più onesto ed intelligente di quanto non si possa pensare in apparenza, proprio nella sua pretesa di voler essere cinema a tutti i costi, rifiutando tutto ciò che con esso non ha nulla a che fare, come a voler rivendicare e gridare la sua esistenza, in epoca di videogame, realtà virtuale e saghe in digitale.
Tarantino è un feticista della pellicola, e siete invitati al suo “cine-luna park”: chi soffre di vertigini da citazionismo è pregato di astenersi.
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