Tragedia americana
“È la perdita dell’innocenza. Una tragedia americana, anche se poi i protagonisti possono considerarsi universali, degli esseri umani sottoposti a prove durissime. È il rimpianto di una giovinezza non vissuta, un’estensione del dominio della violenza. E, sottotraccia, si possono leggere anche zone d’ombra e di luce della vita in America.”
Ecco presentato dallo stesso regista Clint Eastwood il suo nuovo film, opus n°24 in una carriera tra le più sorprendenti del cinema americano. Tacciato di macho-fascismo negli anni ’70 (è il periodo dei Callaghan e di western considerati, all’epoca, solo banali epigoni leoniani); è oggi uno degli autori più rigorosi e profondi dei nostri anni, capace di creare uno dei più convincenti omaggi alla musica jazz e ritratti d’artista con il lontano “Bird”, del ’88.
Se ci aveva abituati bene (tra i tanti almeno “Gli Spietati” e “Un Mondo perfetto”) a 73 anni crea il suo capolavoro, un film di sorprendente coraggio e complessità: parte come un giallo, “Mystic river”, ma ben presto abbandona le logiche inflazionate del genere per diventare altro: lasciate le rive sicure del chièstatoeperchè, il regista si immerge in una riflessione sulla colpa e la redenzione, la perdita dell’ innocenza e il fato, la violenza e il male, espressa in una delle messinscene più rigorose e convincenti della sua carriera.
Supportato da una squadra di attori in stato di grazia, in cui il fuoriclasse è Tim Robbins, assistito da un grande (come sempre) Sean Penn, ma in cui tutti fanno la loro parte egregiamente (Kevin Bacon, Laurence Fishburne e l’eccezionale coppia d’attrici Linney e Gay Harden); Eastwood affronta senza barare e senza sconti la parte più oscura dell’uomo e dell’America: la violenza, l’elaborazione del lutto, il farsi giustizia da sé fino alla pedofilia e alla distruzione dell’infanzia, vero e proprio leitmotiv del tutto.
Con lucidità e rigore non ha paura di immergersi nella banale perfezione dell’american way of life per cercare e pescare il cuore di tenebra che nell’apparente calma piatta è nascosto nella profondità degli abissi e che a volte affiora con tragica violenza.
Più vicino a Shakespeare che a Connelly, protagonista assoluto del film diventa il fato, il caso (fondamentale nei due eventi fondanti della vicenda): prospettiva assolutamente estranea a ogni logica della detective story (che nel film è totalmente decostruita); ma fondamentale in tutte le tragedie del massimo poeta inglese.
Come in una tragedia, non è tanto la vicenda a creare tensione ed emozione, ma i vari stati d’animo, le ripercussioni interiori che i fatti provocano nei personaggi.
Scavo psicologico più che risoluzione di un crimine.
in uno dei rarissimi casi in cui non compare come attore in uno dei suoi film (l’unica altra volta in “Bird”); ma con un cast che in un colpo solo riunisce i due attori simbolo dell’impegno politico Usa (e che il regista dice essere i più bravi in circolazione); Eastwood dimostra una totale maestria e maturità di tecnica e contenuto, regalandoci sequenze di grande emozione: il prologo iniziale, la resa dei conti finale Dave-Jimmy (con un Sean Penn in impermeabile di pelle e dolcevita nero, evidente metafora del babau, dell’orco venuto a prendersi il bambino); l’agghiacciante parata finale, vero e proprio stereotipo della vita americana, in cui i piani ravvicinati di Penn e Bacon, tolgono ogni possibilità di serenità o pacificazione.
Il fatto di non aver vinto nessun premio a Cannes, dimostra come in alcuni festival domini più la logica dello scandalo e dell’effetto rispetto al riconoscere e ricompensare la qualità artistica.
Bello sapere che ci sia ancora qualcuno che pensi e faccia un cinema per cui sembri a tutt’oggi valida la rivettiana/godardiana “ogni carrellata è un fatto di morale”.
A 73 anni il vecchio Clint dimostra di avere tante cose da dire (e profonde) e di saperle esprimere perfettamente. Non male in tempi di cinema virtuale in cui l’accostamento di Leone e manga, Kurosawa e Bava in nome della sola ironia sembra essere una condizione sufficiente di validità estetica.“
Un film per un pubblico di “adulti seri”, come dice lo stesso regista. Si astenga chi nel cinema cerca, vuole altro. I ragazzini mai cresciuti, tirati su a manga e videogame, in cerca di giocattoloni si dirigano da altre parti.
Recentemente Morando Morandini ha detto che ci sono i Grandi Film, i Grandi Film d’Autore e i Grandi Film d’Attori. In questo caso le tre cose coincidono.
Vivamente consigliato a chi (ma ce ne sono ancora?) parla di superficialità del cinema (e quindi della cultura) statunitense. E per chi si vuole riprendere dal vuoto assoluto di “Kill Bill”, sperando che siano in tanti.
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