Dreams that money can (not) buy
All’inizio c’è il progetto del terzo atto di “Novecento”, un capitolo conclusivo dalla fine della guerra alla fine del secolo. Ma i primi due atti sono figli di un momento storico speciale che si è chiuso con il delitto Moro e la morte di Berlinguer, quindi Bertolucci lascia perdere e si imbatte in un libro. Il titolo è “The Dreamers” e racconta di tre ragazzi a Parigi che scoprono il sesso mentre fuori c’è la rivoluzione. Decide che è quella la storia con cui chiudere il buco lasciato dalla rinuncia di “Novecento III”.
“The Dreamers” non è un film sul ’68, almeno non solo sul ’68 ( così come “Buongiorno Notte non è un film sul caso Moro, o almeno non solo sul caso Moro). Parliamo di un autore, di un artista che filtra un fatto attraverso il suo ricordo e la sua poetica per creare qualcosa (altrimenti che artista è ?). C’è ovviamente il Maggio, ma c’è il cinema (e mai il cinema come passione divorante, bulimica, sessuale è stato mostrato, citato, omaggiato con tale intensità); l’amore e il sesso, la meglio gioventù (passione, ribellione, sogni, utopia…). Ovviamente c’è anche il ’68, ma secondo Bertolucci (che all’epoca aveva ventisette anni, e si scontrava con chi era più vicino al movimento come Godard e Bellocchio e chi il movimento lo negava, come Pasolini con i suoi “vi odio cari studenti”) che ricorda con entusiasmo: non solo politica e cinema fusi uno nell’altro (non a caso tutto parte dalla chiusura della Cinemathéque…); ma il rock e il sesso, le canne (oops…) e la sensazione che qualcosa stia cambiando (completamente e in meglio) con l’entusiasmo che ne deriva.
Non i fatti ma l’atmosfera, nella visione di uno che c’era, che non rinnega e che giudica il movimento (che per Bertolucci si chiude nel peggiore dei modi nel ’78 proprio con il delitto Moro); nei suoi primi anni un grande evento che segna una frattura tra un prima e un dopo. Ma Bertolucci non vuole solo ricordare senza pentirsi di nulla (come canta Edith Piaf nell’ultima sequenza); ma raccontare. A chi? Ai giovani, ai ragazzi che non c’erano. Racconta l’evento, quindi interpretandolo, vedendone la spinta tutta positiva dell’entusiasmo, ma anche le possibili derive negative che covavano, la violenza velleitaria e ingiustificata, il fanatismo. C’è chi alla fine sceglie di tirare le molotov e chi no. Ed è l’americano che sembra capire e interpretare la parte migliore. È il presente, lo scontro, l’incomprensione tra vecchio e nuovo continente, che nell’originale si gioca tra il francese e l’americano parlato tra i tre ragazzi. Usa- Europa. Forse più vicino ai nostri tempi che a trent’anni fa. “Mi sono completamente arreso al fatto che l’unico tempo del cinema è il presente, perché la macchina filma il presente anche se davanti c’è l’imperatore di Cina. Ti trovi davanti il presente di quei visi, quei corpi, quel giorno. Il cinema si coniuga solo al presente”.
E il sesso? Indubbiamente c’è, anche con scene forti (ma qui il regista gioca in casa) ma mai fine a sé stesso, ma metafora della scoperta e della crescita di sé stessi che a volte non può che essere molto dolorosa. L’indignazione la lasciamo ai benpensanti.
Il ’68 e il cinema, il sesso e la voglia e l’entusiasmo con cui (ci) si scopre a vent’anni, il tutto narrato nella magica, profonda, affascinante forma a cui il regista ci ha abituato da quarant’anni.
“Riguardo a The Dreamers, il mio consiglio è semplice, tenersi al titolo”.Così Bertolucci. Non ci rimane che attenerci.
Da vedere e rivedere, rivedere, rivedere…
Non può non colpire la presenza simultanea dei due grandi giovani turchi del nostro cinema (che avevano descritto e raccontato le inquietudini giovanili prima che si manifestassero macroscopicamente nell’esplosione del Maggio parigino) con due grandi film così simili (claustrofobicamente chiusi in due spazi ristretti, non nel mondo) e così diversi ( Bertolucci affronta l’inizio di tutto raccontando la passione e l’entusiasmo, Bellocchio la deriva, il disastro finale, la fine di tutto nella violenza e nel fanatismo più assoluto) a Venezia, a quarant’anni dai loro esordi con i pugni in tasca prima della rivoluzione. Due splendidi sessantenni con la stessa passione e la stessa maestria. Che fanno ancora scandalo.
A chi, credendo di essere pungente, invoca un vaccino per debellare un possibile contagio Bertolucciano, come ai tanti che insorgeranno (come già contro l’affaire Moro secondo Bellocchio) una frase: “Penso che non si possa amare profondamente nessun film se non si amano profondamente quelli di Howard Hawks” (Rohmer sui Cahiers, che mi sembra in tema)… a cui basta sostituire Hawks con il nostro per chiarire il tutto…
Un’avvertenza: premettendo che tutti i film andrebbero visti nell’edizione originale (semplicemente per rispetto della volontà del regista) in questo caso, in cui è fondamentale la doppia lingua inglese-francese, con il doppiaggio non so proprio che ne verrà fuori. Non ci rimane che (ri)vederlo.
Curiosità
Tra i film citati (e mostrati) appaiono “Il Corridoio della paura” del beniamino della nouvelle vague, Sam Fuller, “Fino all’ultimo respiro” e “Bande à part” di Godard, “La Regina Cristina” con la divina Garbo, “Il Cameraman” di Buster Keaton, “Freaks” di Browning, “Cappello a cilindro” con la coppia Astaire-Rogers, “Venere Bionda” con la Dietrich, “Mouchette” di Bresson e “Scarface” di Hawks, il nome tutelare, con Hitchcock, della politique des autheors.
“Hey Joe” la mitica cover di Hendrix è presentata nel film nell’interpretazione di Michael Pitt alias Matthew (che non è quindi solo un attore…).
Dare la votazione massima a un film in prima visione è rischioso e azzardato. Significa considerarlo un capolavoro, attributo che solo il tempo può assegnare. L’eccezione in questo caso è dettata dall’entusiasmo. Come dire, siamo fiduciosi…
A cura di
in sala ::