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cultura dell'immagine e della parola

Vedersi vivere

Vedersi vivere

Sono sette mosse che descrivono un’ infinitesima parte dell’essere, sette storie tra loro vagamente intrecciate che aprono come uno squarcio nel tessuto del tempo, dello spazio, fortunose registrazioni di pensieri e sensazioni captate da un ascoltatore sensibile. “La manutenzione degli affetti” stupisce per la lucidità e l’esemplarità di certe situazioni, per l’apparente facilità e la sicura felicità di scrittura. Antonio Pascale tratteggia nei suoi racconti una cittadinanza vagante, affranta, confusa, alla costante – se pur non sempre cosciente – ricerca di una consolazione, di un rimedio alle ingannevoli secche dell’esistenza, ai nodi che formano il groviglio delle loro/delle nostre vite. La parola dunque corre spesso a cercare, nel passato, il ricordo di quel momento in cui avremmo potuto – forse – cambiare il corso delle cose, se solo ci fossimo resi conto. E’ una caratteristica dell’uomo infatti quella di non potersi vedere vivere, di sapersi riconoscere solo a posteriori, retrospettivamente. Quando ormai è tardi: “Pensavo che certe cose si ricordano sempre tardi. Accorgersene per tempo, quella è la vera scommessa.”
E’ una sensazione amara, quella che tocca chi si rende conto di avere scelto una strada – chiamata “destino”- per il solo motivo che essa appariva, in un primo tempo, molto convincente: “Perciò non andiamo subito in fondo alle cose, altrimenti scopriamo che ci hanno ingannato.” Non resta altro da fare che adattarsi un po’, al corso che le cose prendono, senza rassegnazione ma con la certezza che, nel regno tirannico del dopo, rimane solo il ricordo, il rimpianto. La scrittura di Pascale mette nitidamente a fuoco la fisicità degli oggetti, l’area di contatto che comprende i nostri corpi e l’ambiente in cui essi si muovono – si aggirano, verrebbe da dire. Abitazioni opprimenti, materiali stantii, suppellettili impolverate e squallide, costituiscono le mura della prigione che costruiamo giorno dopo giorno: attorno alla nostra persona, come un bozzolo, questa massa stratificata cresce e ci esclude tanta parte di sguardo: la strada che percorrevamo diviene infida, le persone che abbiamo amato (per bisogno? o per se stesse, quindi per amore?) prendono altre vie. La manutenzione sembrerebbe nome più adatto a un ascensore, invece descrive bene quell’obbligo di attenzione costante che dobbiamo indirizzare alle scansioni impercettibili compiute dall’indecifrabile che ci circonda: i chi, i cosa. Per vincere la solitudine, per riconoscere e contenere quella frazione di secondo che ci fa dire, invasi dal timore di essere immediatamente contraddetti: “Ecco, io ora sono felice.” Trovare la forza di ammettere a se stessi la fugacità del sereno è come stuccare un muro crepato, sostituire un vetro infranto, dare da bere a una piantina secca. E’ un gesto, un intervento, una conservazione. Per questo i racconti che formano questo libro sono così ricchi di descrizioni di oggetti: lampadine fulminate, pareti storte, piatti sporchi, a formare una sorta di catalogo di correlativi oggettivi che danno risalto, per affinità/contrasto, alle smagliature del nostro vivere. E’ un pianeta, questo ceto medio sgangherato rappresentato da Pascale, che esce dall’orbita pur tormentata (conosciuta?) di un tempo, perde la curva e si inoltra da qualche parte, solo con se stesso, lasciato alle sue proprie, complicate cure.

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