Intervista a Ed Gass-Donnelly
Per cominciare, mi piacerebbe conoscere quali sono state le tue impressioni riguardo al Milano Film Festival. In Italia festival come questo non sono molto comuni e quindi è molto interessante sapere cosa può pensare di questo avvenimento un regista straniero.
E’ divertente che tu dica che festival di questo tipo non sono comuni in Italia se si pensa che voi avete molti festival di fama internazionale ( Venezia, Torino, Locarno, il Siena Short Film Festival). Personalmente sono rimasto sorpreso dalla grande affluenza di pubblico a Milano. Anche durante i matinee c’era un buon seguito e alle proiezioni serali c’era spesso il tutto esaurito. Molti grandi festival hanno audience importanti (Cannes, Venezia, Toronto) ma è raro che un festival giovane come quello di Milano abbia un audience di base così ampia in così poco tempo. Specialmente per quanto riguarda i cortometraggi.
Tra l’altro, ben pochi festival hanno tante belle donne nello staff!
Ho navigato sui siti web che contengono informazioni riguardo alla tua carriera e ho trovato che, nonostante tu abbia solo 26 anni, il tuo curriculum è molto completo. Sei regista cinematografico, attore, regista teatrale e fotografo. Puoi parlarci del tuo background artistico?
Ho cominciato come regista teatrale. Ho formato la mia compagnia, UrbanImage Theatre, quando avevo 19 anni e ho prodotto e diretto teatro a livello professionale a Toronto fino al 2000. Avevo raggiunto uno stadio in cui trovavo molto difficile reperire i fondi per realizzare i progetti teatrali a cui tenevo di più. Poi ho scoperto che ero in grado di realizzare film che soddisfacenti con budget molto ridotti e quindi, rapidamente, ho cominciato a raccogliere fondi per i miei film. Non era nelle mie intenzioni lasciare definitivamente il teatro, semplicemente è capitato che i progetti a cui tenevo e per riuscivo ad ottenere finanziamenti erano i film.
Non mi considero un attore. L’ho fatto ma non sono molto bravo. La recitazione era semplicemente quello che mi aveva appassionato del teatro da ragazzino. Ma una volta finite le scuole superiori ho capito che quello che volevo era dirigere.
Ho sempre ritenuto importante imparare almeno qualche rudimento di tutti gli aspetti del campo creativo in cui lavoro. A teatro volevo imparare la recitazione e l’uso delle luci e delle scenografie per essere un regista migliore. Quanto meglio capivo ogni singolo aspetto, tanto meglio potevo sfruttarlo come regista. Lo stesso è successo col cinema. Ho iniziato da autodidatta a studiare la fotografia e il montaggio per comprendere meglio l’intero processo creativo.
Il cortometraggio che hai presentato al MIFF, Pink, che approccio registico hai avuto con questo genere?
Avevo già adattato altri monologhi. Il mio primo film, Pony, era un adattamento ddi un monologo e i miei due film successivi, Polished e Dying like Ophelia, erano entrambi tratti da lavori teatrali e contenevano al loro interno dei monologhi. Ma quello che ha reso Pink più complesso era il fatto che questo monologo così intenso ha luogo in tempo reale in una stanza e viene recitato da una ragazzina così giovane. Sentivo che il materiale era abbastanza forte da sorreggersi da solo se avessi trovato l’attrice giusta per quella parte. Una volta trovata l’attrice la struttura del film si è evoluta organicamente.
Ho girato il film con l’intenzione di montarlo in un certo modo, ma al secondo giorno di riprese mi sono accorto che la recitazione era cambiata dal giorno precedente per un piccolo dettaglio. Era di capitale importanza montare il film intorno alla performance attoriale, così il film si è evoluto come risultato della ricerca dei girati migliori. Ho sperimentato diversi approcci al taglio, fino a trovare lo stile che sottolineava meglio la performance e che credo abbia fornito al film un intreccio visuale unico.
Sophie Traub, la ragazzina di dieci anni che recita nel film, interpreta una parte molto complessa. Personalmente ho trovato la sua recitazione molto intensa. Come descriveresti la tua esperienza nel dirigere una attrice così giovane in un ruolo così impegnativo?
Sophie ha attualmente 12 anni, nella sceneggiatura originariamente avevamo detto che avrebbe dovuto avere 10 anni, ma l’abbiamo cambiato perché non ero sicuro che sembrasse così giovane. Pink è la prima interpretazione di Sophie ed è stata la prima volta che ho diretto qualcuno così giovane. Credo che entrambi fossimo parecchio nervosi. Ero abituato a dirigere autori che avevano il doppio dei miei anni e ormai avevo sviluppato un piccolo vocabolario che mi permetteva di comunicare ai miei attori pensieri complessi e emozioni in modo più semplice.
Quando ho cominciato a dirigere Sophie, siamo partiti entrambi improvvisando. Lei possedeva una tonnellata di talento allo stato grezzo, quindi il mio lavoro era quello di affilarlo e dargli forma, portandola verso emozioni sincere e cercando il suo ritmo naturale nel testo. L’impulso naturale di un attore di fronte ad un pezzo come questo è di recitare l’emozione, ma io sentivo che era necessario che lei trattenesse l’emozione per costruirla sotto la superficie fino a farla esplodere in forma di rabbia. E’ stato un piacere assoluto lavorare con lei e credo abbia fatto un ottimo lavoro.
Pink tratta un tema molto importante, quello del razzismo, che al momento non è in cima all’agenda dei media. Come mai hai scelto di parlarne?
Me lo sono domandato a lungo. Perchè il Sud Africa?
Judith Thompson, l’autrice, aveva scritto il monologo nel 1990 e io avevo avuto un po’ di tempo per rendermelo familiare. Mentre trovavo i temi importanti, quello che più mi spingeva verso questo testo era la sua complessità emozionale. Questo monologo è pronunciato da un personaggio forte, è bello, è scritto in modo poetico e dal punto di vista narrativo ha un inizio, uno sviluppo e un finale ben definiti. Mi sembrava davvero il testo ideale per un cortometraggio. Ho letto un libro straordinario sull’apartheid intitolato “Kaffir Boy” che mi ha molto toccato. Lo stavo leggendo in autobus, tornando da un festival in Pennsylvania, e mentre lo leggevo sono scoppiato a piangere per quanto mi sentivo toccato. Quel libro mi ha aiutato molto a capire il film che stavo girando e a renderlo più personale.
A cura di Marco Valsecchi
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