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Remake al cubo

Remake al cubo

Il 1984, anno di pubblicazione del romanzo Neuromante di William Gibson e il 1985, anno della convention di fantascienza ad Austin in Texas, segnavano la proclamazione del cyberpunk come “la nuova alleanza, l’integrazione fra tecnologia e controcultura degli anni ottanta”. Qualche anno prima, Blade Runner di Ridley Scott (tratto dal romanzo “Cacciatore di androidi” di Philip Dick); segnò anche in campo cinematografico il manifesto degli incanti cyberpunk, vero e proprio punto di riferimento visivo, stilistico e concettuale del filone, forse mai eguagliato in seguito. Nello stesso anno (’82) uscì nelle sale un altro film-programmatico, Tron di Lisberger, colorito scorcio di matrice puramente tecnologica-informatica di uno degli elementi portanti di tutto il cyberpunk: il cyberspazio. Come recitarono i titoli a inizio film, questa fu la prima pellicola girata interamente da un computer.
Sia in campo letterario che cinematografico però gli antesignani del genere si possono scorgere nelle figure di Dick, Gibson e Sterling (letteratura) e in “Cyborg 2087: Metà uomo, metà macchina programmata per uccidere” di Andreon (cinema); forse uno dei primi lungometraggi con organismi cibernetici come protagonisti.
Proprio nel 1984, James Cameron realizzò un buon film cyberpunk, che superficialmente e in linea con le regole imposte da un budget da investire in super effetti, affronta temi tipici di questa cultura tra i quali spiccano: l’evoluzione estrema della robotica e della cibernetica, la minaccia di un’incontrollabile cultura apocalittica proveniente dal futuro e il ruolo della vita, trasformata nel gioco per vivere o sopravvivere costantemente in bilico fra predestinazione e libero arbitrio (vedi Sarah e poi John Connor). Piccolo particolare, la pellicola di Cameron non era altro che un vero e proprio remake dell’opera di Andreon, riadattato alla Los Angeles di quei tempi.

Terminator e Terminator II: Il Giorno del Giudizio (1992, sempre di Cameron); ispiratori di una marea di cloni che si appropriano della parola “terminator”: già il secondo praticamente il remake del primo (con leggeri mutamenti di prospettiva: prima un cyborg inarrestabile e spietato, poi un cyborg leale e difensore degli umani); sono semplificativi riguardo al pericolo dovuto alla ipertecnologizzazione cui va incontro l’uomo. Le macchine, presto o tardi, tenderanno a prevalere sui loro costruttori, scatenando una guerra senza precedenti (condotta addirittura attraverso i tunnel temporali).
I due capisaldi della saga cameroniana incarnavano un atmosfera plumbea, erano interpretati da spietati e silenziosi cyborg, in un mondo (quello nostro) caotico, arido di sentimenti, già sull’orlo dell’abisso, omniproduttivo e consumatore di se stesso. Si respirava un’aria tagliente di tensione che presagiva già il peggio. Cyberpunk nella sua parabola discendente, ma pur sempre di genere. Tutto il film (oltre alla grandissima spettacolarità degli effetti speciali) teneva comunque bene grazie alle scelte di regia di Cameron.
In Terminator 3, remake del remake (di un altro remake di un film degli anni ’60, remake al cubo quindi) molto di questo scompare. Il film stesso è il prototipo di una linea di prodotti da consumare, prima tra tutte la scelta di farsi sponsorizzare dalla birra Bud, dalla Nokia e dai reggiseno Victoria’s Secret. Obiettivi diversi quindi dai primi due film: divertimento e stupore combinati in assenza di concreta drammaturgia. In effetti è sufficiente guardare le espressioni dei tre protagonisti per rendersi conto che è impossibile rintracciare un livello minimo di angoscia di fronte agli eventi “narrati”. A Claire Danes, nella parte di Kate Brewster, sembra le sia sganciata addosso dal regista Jonathan Mostow, tutta la carica drammatica della pellicola: prima si trova coinvolta in un violento assalto del T-X (il cattivo di turno interpretato con freddezza “diabolica” dal corpo-icona Kristanna Loken) che la rapisce; poi l’uccisione del suo fidanzato e quella del padre. Un cambiamento di programma improvviso tutto risolto dopo due lacrimucce nel ritrovo e rinnamoramento con la vecchia fiamma John Connor, vicenda che funge da punto nodale di tutta la sceneggiatura. Sarà infatti Kate che riprenderà in mano la resistenza umana contro Skynet, secondo le rivelazioni dell’ennesimo clone di T-800, alias Schwarzenegger.
Il primo tempo è fin troppo condito da battute e performance divertenti da parte dei 2 terminator, tanto da rendere ridicolo un personaggio simbolo della freddezza e della cattiveria. Nel secondo tempo il film prende una piega più seria: la trama s’intreccia, i dubbi sulla scongiura del bombardamento nucleare riemergono, a John Connor viene rivelato il suo destino crudele ed il film diventa più interessante, più vicino alla sensibilità del cinema di fantascienza degli anni Settanta che non ad un blockbuster d’azione.

A parte tutto, sinceramente non sono andato in sala a vedere Terminator 3 con grandi attese. Semplicemente per svago, anche se la malinconia da “delusione attesa” mi prendeva con i ricordi ancora vividi dei primi due. La scelta di dare un seguito alla saga era puramente economica (primo posto ai botteghini USA e italiani) e per qualcun altro di visibilità (Schwarzenegger uscirà con tre film in coincidenza con le elezioni in California, mai successo prima). Da questi presupposti non poteva che uscirne fuori un film prevedibile, già visto, con un contenuto visionario comunque neanche troppo violentato dal nuovo regista (U-571 all’attivo). Innanzitutto le scene d’inseguimento, gli effetti speciali di morphing (Arnold in certe scene sembra davvero non avere mai avuto le ossa sotto la pelle); risultano impressionanti. L’idea vivida dell’invulnerabilità di questi robot percorre tutto il film, anche se lo scontro tra corpo autentico e corpo cibernetico risulta ormai irrilevante, superato. Il Terminator infatti non spaventa, non rappresenta alcun orrore (della morte); tanto che l’Apocalisse dell’umanità è percepita senza angoscia, forse in risalita nel finale. La macchina sembra un traguardo estetico da raggiungere più che da temere. Sembra di essere rassegnati ad una fine necessaria di fronte alla bellezza delle nuove macchine e dei veri attori, in attesa forse che la carne umana, così vecchia e primitiva, si metta definitivamente da parte. I due terminator sono i protagonisti principali anche nella trama. Il salvatore dell’umanità è la macchina non l’uomo stesso, la macchina che in una scena finale si sforza in un tentativo che ha molto della volontà tipicamente umana per reagire e salvare il salvabile. Forse non bisognava lasciare il posto a una storia tra soli Terminator di vecchia e nuova generazione.
Dov’è finito il cyberpunk? L’uomo ha perso il ruolo e quella guerra di cui Philip Dick, Stirling e altri ci raccontavano nelle loro stesse storie?

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