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Intervista a Pieter De Buysser

Mi piacerebbe sapere quali sono state le tue impressioni generali riguardo al Milano Film Festival. In Italia festival come questo sono piuttosto rari, quindi è interessante conoscere l’opinione di un regista che arriva da un paese straniero.

Ho avuto un impressione molto positiva riguardo al festival, è un festival relativamente grande e ed ho avuto la possibilità di incontrare registi provenienti da oltre trenta differenti nazioni. Ogni sera abbiamo avuto un riscontro di pubblico eccezionale e lo staff ha saputo prendersi cura davvero bene degli ospiti. E’ stato un onore essere presente. Ma penso che la ragione più importante per cui ho amato questo festival più degli altri sia stato il fatto che è stato organizzato in un contesto politico molto difficile. Probabilmente nessuno lo direbbe a prima vista, e certamente Milano non è Ramallah. Eppure c’è un contesto politico fortemente problematico che ama nascondersi dietro una facciata di ridente glamour e dietro a frasi populiste. Sebbene finora l’Italia sia stata un membro molto rispettato dell’Unione Europea e abbia avuto una credibilità in grado di coprire il comportamento dei suoi politici. Ma Berlusconi e i suoi faccendieri stanno facendo un gioco pericoloso e credo che il pericolo sia ancora sottostimato. Lo staff del festival ad esempio ha dovuto cambiare l’introduzione al programma perché qualcuno la aveva ritenuta troppo politica. Gli è stato proibito di pubblicarla. Le loro sovvenzioni sono state tagliate perché la loro attività è stata considerata troppo politica. E’ importante che noi, registi di tutto il mondo, non facciamo mancare il nostro appoggio, e che non lo faccia mancare neanche il popolo italiano. Il cinema è un polmone per la società, e loro gli hanno dato la forza di respirare.

De intrede, il corto che hai presentato al MIFF è molto interessante da un punto di vista stilistico. Mi piacerebbe sapere qual’è il tuo background come regista.

Nessuno. E’ il mio primo film.
Mi sono creato un background guardando migliaia di pellicole, studiando filosofia, leggendo, scrivendo testi teatrali e sceneggiature, nutrendo il mio desiderio di filmare.

In De intrede ci sono molti primi piani e i volti degli attori giocano un ruolo importante nella costruzione del senso del cortometraggio. Che tipo di interpretazione hai richiesto ai tuoi attori?
Quella impossibile, gli ho chiesto di appendere una goccia d’acqua ad un muro. Di andare oltre la realtà per avvicinarsi al reale. Di amare la realtà per amare la menzogna, la finzione, l’illusione, l’immaginazione. Espressionismo e surrealismo non sono le categorie giuste per descriverlo, ma forse ci si avvicinano. Io invento. Io chiedo agli attori di inventare. Di essere precisi come un’operazione chirurgica. Una buona interpretazione è una buona operazione a cuore aperto.

Sul palco del Teatro Strehler hai detto che non spiegherai mai il significato di un tuo film, perché ognuno deve trovare la sua interpretazione personale. Rispetto la tua posizione, ma mi obbliga a porti una domanda personale (naturalmente puoi anche rispondermi che non sono affari miei). Io ho interpretato il tuo film come una sorta di “Vangelo laico di diciotto minuti”, quindi vorrei sapere: qual’è il tuo rapporto col sacro (da un punto di vista artistico)?

Non stavo parlando dei miei film ma del mio recitare e scrivere . Nove proiezioni sono state compiute in Belgio ed Olanda, e hanno prodotto un certo effetto.
Principalmente rispondo facendo qualcosa di nuovo.
Mi piace la definizione di “Vangelo laico”, è una metafora illuminante.
In Europa abbiamo grossi problemi con la nostra eredità religiosa. La religione è morta e credo si tratti di un fatto vantaggioso. L’esperienza del sacro, le implicazioni etiche della trasgressione, l’esperienza del sublime, la sua violenza e la sua estrema bellezza, queste cose mi provocano forti dubbi. Mi affascinano e mi condannano a fare il mio lavoro. Lo spazio vuoto lasciato dalla religione mi solletica. Nel ventesimo secolo gli artisti hanno tentato di trarre dall’arte un riempitivo per quello spazio vuoto. Credo si sia trattato di un errore. Io cerco di inventare qualcosa di nuovo, non so bene da dove verrà alla luce. Io lo chiamo “zonap”. Non è arte, non è religione, non è una filosofia, non è una ideologia politica, è zonap.

Guardando De intrede mi è tornata alla mente una frase di Peter Brook: “lo shock provocato dallo straniamento mette in moto la parte migliore della nostra ragione”. Come regista, in che modo “maneggi gli shock” dei tuoi spettatori?

Con amore. Il pubblico intelligente capisce che non sto cercando di scioccarlo o di destare sensazione. Naturalmente molta gente non riesce a collocare questa esperienza e cerca rifugio nei propri pregiudizi. Io non li giudico, assolutamente, mi dispiace per il fatto che hanno avuto una brutta esperienza, spero che inizino a pensare. Un buon film evoca sensazioni sconosciute, rende consci, spinge a pensare a essere in allerta. Non voglio che il pubblico vomiti, non voglio attirarlo, non voglio farlo piangere o combattere per cause ideologiche. Il pubblico è libero, disperatamente libero. Se gli spettatori esperiscono quello shock, quello shock di terrificante bellezza, allora può accadere qualcosa di estremamente importante. Quello shock può fungere da catalizzatore, può essere un ingranaggio che inizia a lavorare, l’ingranaggio della libertà e della responsabilità, dell’immaginazione e della lucidità.

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