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Afghanistan anno zero

Afghanistan anno zero


Nel primo lungometraggio girato nella Kabul “liberata” dai Rambo (così nel film sono appellati i soldati yankees); la ventitreenne regista iraniana compone con macerie e donne in burqa blu e indaco lo spazio delle inquadrature all’interno del quale seguiamo la protagonista, Noqreh, una ragazza piena di speranza nel futuro post-talebano che sogna con caparbietà e ironia di diventare Presidente della Repubblica. I suoi movimenti che tagliano lo schermo orizzontalmente guidano il nostro itinerario nel “nuovo” Afghanistan. Samira Makhmalbaf era presente sul set nel 2001 mentre il padre Mohsen girava le dure ed estetizzanti sequenze di “Viaggio a Kandahar” e lei, quasi a perpetuarne lo spirito, riprende il racconto di questo popolo alla disperata ricerca della pace. Noqreth appare perfetta come simbolo del nuovo corso e i suoi gesti raccontano la ritrovata libertà: dal vezzo di camminare in strada a viso scoperto, al furtivo indossare scarpe lucide con la fibbia fino al cambiarsi abito di nascosto all’uscita di casa per andare a scuola! nello stesso rituale che Isabelle Huppert, con obiettivi più trasgressivi, aveva già sperimentato nel 1978 nei panni di “Violette Noziere” (Claude Chabrol). Il film s’interroga sull’illusione di una libertà effimera come la presunzione di imporre la democrazia con le armi stigmatizzata nel dialogo surreale tra la giovane e il soldato francese e da qualche stoccata all’Occidente (“Siamo in Afghanistan, ma quante donne presidente ci sono in Europa e in America?”). Noqreh diventa quindi il simbolo visivo di tante contraddizioni, iconograficamente sempre più simile ad una Madonna predestinata al sacrificio che porta tra le spalle un bastone da trasporto come in una eterna via crucis.

La tradizione e la paura
Il confronto generazionale padre/figlia, tra loro così apparentemente lontani, si risolve con una sconfitta per entrambi. Il padre in attesa del figlio disperso in Pakistan scappa dalla città diventata un covo di blasfemi e si confida solo con il suo cavallo e la figlia, pur orgogliosa femminista, fugge con lui da un futuro che appena iniziato è già morto. Nella scena della ricerca dell’acqua tra macerie e mine, il girovagare quasi sonnambulo di Noqreth evoca quello di Edmund nel finale di “Germania anno zero” (Roberto Rossellini, 1947);in questa storia però la ragazza non avvelena il padre nei cui occhi non c’è odio ma solo l’orgoglio di una tradizione e la paura di perdere la propria identità. “Burqa è bello?”, un dubbio, una provocazione che farà molto discutere (chi lo dice alla Fallaci!). Come in “Lavagne” (2000); la regista enfatizza il senso del vagabondare in uno spazio desertico facendo emergere gradualmente dalla discontinuità di colline aride e pietrose figure rese oniriche, quasi rarefatte dalle immagini che fluttuano all’orizzonte.

Io sguardo lucido della mdp
Samira M. è convinta del potere del cinema di illuminare il lato nascosto di un luogo e di un tempo. Come per lei fu una rivelazione capire l’America attraverso i film di Jim Jarmush o l’India grazie a Satyajit Ray, così cerca di scuoterci dal torpore di spettatori sudditi della cronaca. Il Premio della giuria e il Gran Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes 2003 hanno reso onore ad un film originale, con qualche ripetizione e sottolineatura di troppo nel finale, che ha il merito di posare uno sguardo diverso e difficile su una terra molto più complessa della sua immagine. “Alle cinque della sera” è l’amara storia di un sogno seppellito in un deserto di macerie; Afghanistan anno zero, ancora una volta.

Curiosità:
Nel discorso tenuto dal palco del Festival di Cannes in occasione del ritiro dei premi, la Makhmalbaf ha dichiarato, nel delirio della platea francese, di non essere interessata come la protagonista del film a diventare presidente del suo paese in un mondo dove il presidente della nazione più potente è George W. Bush!!! Il soggetto del film è tratto da una storia di Mohsen Makhmalbaf, grande regista iraniano e padre di Samira.

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