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Credere nell’impossibile

Credere nell'impossibile

ma la regia non è taumaturgica
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di Fabio Falzone

Un bambino di nome Tonio viene investito da un’auto: la ragazza alla guida, spaventata, fugge senza prestargli soccorso. Prima di perdere i sensi, il bambino vede una luce potentissima. In ospedale esce dal coma e, durante la notte, toccando un vecchio ormai in fin di vita, sembra ridargli vita. Un miracolo? Ben presto, intorno a lui la gente comincia a creder che il bimbo abbia qualcosa di speciale: sua madre sostiene la cosa davanti alla stampa, suo padre naviga in brutte acque e pensa a come cavar danaro dalla faccenda, l’amico lo porta regolarmente a casa del nonno malato nel tentativo di farlo guarire grazie ai suoi “poteri”.

Nativo di Klagenfurt (Austria); ma cresciuto a Depressa, in provincia di Lecce, dove tuttora vive, Edoardo Winspeare ha esordito nel lungometraggio col notevole Pizzicata (1996); per poi dirigere Sangue vivo (1998); ambientato come il precedente in una Puglia mai folkloristica, tuttavia stazionante fra manierismo e ritualità.

Nel film le ambizioni ci sono ma non sempre sono controllate: piace più ciò che l’opera dice (forse i miracoli non avvengono, i malati non guariscono imponendovi le mani, però l’affetto e la tenerezza hanno comunque il potere di salvar la vita a qualcuno) che i modi in cui lo fa, attraverso personaggi stereotipati inseriti in un racconto forzoso negli snodi e prevedibile negli sviluppi. È il proposito che si avverte in tutto il film: il tentativo di fare combaciare elementi intimo-psicologici con quelli caratteristici di una cornice socialmente e culturalmente limitata a Taranto si scontra con una storia che questi caratteri e questa Taranto lascia abbondantemente sullo sfondo. Una sceneggiatura (firmata Sabrina Balestra) quasi anomina che, a differenza delle sanguigne pellicole precedenti, manca di forti legami con la sua terra, tanto da far sembrare il film ambientato in una grande città di porto qualsiasi, da Genova a Livorno.

E’ comunque doveroso segnalare alcuni momenti di rara efficacia visiva e che tuttavia male s’incastrano in una sceneggiatura incapace di valorizzarli nel loro insieme: alcune inquadrature sul viso intenso ed espressivo del piccolo protagonista; certi scorci di paesaggio urbano, in una Taranto dove il mare stridentemente coesiste con i fumi e le articolazioni metalliche di un gigantesco impianto siderurgico; la fotografia di Paolo Carnera e lo scambio di sguardi del finale: che annuncia una partecipazione, un non abbandono. Dice di un miracolo, vero.


Credere nell’impossibile
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di Francesca Arceri

Ci sono molte porte che ci separano dagli altri. Le proccupazioni, la depressione, il denaro, la solitudine. In un modo o nell’altro, questi e altri fattori, partecipano a un isolamento, ostinato e silenzioso, che ci avvolge senza preavviso.

Il miracolo racconta persone, individui presi dal mucchio e seguiti nelle case, a scuola o al lavoro, per mostrarci come la vita di tutti giorni, apparentemente senza increspature, possa rivelarsi grigia, svuotata dell’amore e della sintonia, al punto da rendere sordi verso il prossimo e noi stessi. I protagonisti di questo film sono molti: cè un bambino che subisce un incidente, non viene soccorso e finisce in coma; c’è una ragazza, che ha sofferto troppi abbandoni e ora sembra insensibile al mondo; c’è un padre, schiacciato dal peso dei debiti, della vita materiale, affondato nelle sue preoccupazioni; due madri fragili, così bisognose di amore che si affidano al destino, una aggrappandosi a un’idea l’altra abbandonandosi alle pulsioni. Da una parte abbiamo la mancanza e dall’altra il bisogno.

Antonio, risvegliatosi dal coma, vaga di notte per l’ospedale e si trova ad assistere alla crisi di un paziente a cui smette di battere il cuore. Il bambino lo tocca e la vita torna nel corpo dell’uomo. Questo evento innescherà la credenza che Antonio abbia compiuto un miracolo. Lui non sa spiegarselo ma inizia a crederci. La madre, d’altro canto, era convinta da molto del suo potere taumaturgico. Il padre, invece, rifiuta di ascoltarlo, esasperato dall’ennesimo problema in vista. In ogni caso l’incidente unisce le strade di Antonio e Cinzia, la ragazza che lo ha investito e non l’ha soccorso. Questa adolescente sola, è stata abbandonata da sua madre e ora vive arrangiandosi, chiusa nella rabbia sorda nei confronti della vita. Fra i due nascerà un’amicizia che darà una prospettiva diversa alle cose: mentre Cinzia si aprirà con la madre ritrovata, andando a vivere con lei e provando a ricostruire un rapporto che sembrava impossibile ritrovare; Antonio si convincerà dei suoi poteri e andrà ad aiutare il nonno malato di un suo compagno, con la speranza di vincere il cancro grazie al suo tocco.
I due ragazzi si interrogano sul lungomare, chiedendosi se credono nell’impossibile. La risposta per entrambi è: io ci voglio credere. Gli eventi sembrano dar loro ragione: la ragazza ha ritrovato una vita più equilibrata e il nonno sembra migliorare. Purtroppo la morte improvvisa dell’uomo anziano capovolge la situazione: proprio ora che anche il padre aveva accettato di dar credito alle dicerie su suo figlio (in cambio di un compenso per un’intervista esclusiva), è proprio Antonio a non crederci più, anche se le sue visite, in fondo, avevano reso felice il malato.
Le sue non sono le uniche illusioni ad infrangersi: Cinzia dovrà affrontare l’ennesimo abbandono da parte della madre, che decide di tornare dall’amante. Questa volta però non ha più la forza di credere. Caccia il bambino e si chiude in casa, prostrata dalla rabbia e dal dolore. Tutto sembra precipitare, ma il padre ritorna sui suoi passi, cancella l’intervista e rifiuta il denaro mentre Antonio va a casa della ragazza in tempo per salvarla da un tentato suicidio.

Edoardo Winspeare ha creato un film amabile: per il suo messaggio, per la fotografia superba, per i volti intensi. Soffre purtroppo di alcune pecche nella sceneggiatura, soprattutto nella costruzione del del padre e delle vicende della famiglia di Antonio: alcuni aspetti sembrano superflui, altri solo abbozzati, così come la madre di Cinzia non convince. Soprattutto infastidisce l’insicurezza della recitazione che se da un lato dà un tono genuino dall’altro provoca l’impressione di un certo dilettantismo, in forte contrasto con la prosessionalità del regista e soprattutto con la qualità dell’immagine che vale tutto il film.

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