Cannes e dintorni
SELEZIONE UFFICIALE CONCORSO
Palma d’Oro e Migliore Regia
Elephant
Regia: Gus Van Sant
Interpreti: Timothy Bottoms, Matt Malloy, Eric Deulen, Alex Frost, Elias McConnell
Un liceo americano come tanti. Studenti belli e fatui che cambiano aula nella noia generale. Qualcuno ha il padre alcolista, alcune ragazze un presente anoressico, tutti sono accomunati dall’ignoranza del passato. Interessati veramente a nulla, giocano ai videogiochi, suonano il pianoforte ma senza convinzione (Beethoven, un riferimento a Kubrik di “Arancia Meccanica”?); si trascinano stancamente. Fino a che la violenza esplode (ma esplode sul serio?). E due fratellastri si armano fino ai denti e indossano le tute mimetiche per fare piazza pulita, non perché ne abbiano alcun motivo o ragione, solo per avere “lot of fun”.
Quello che ci colpisce è l’inutilità di questo film, pluripremiato a Cannes, la sua inconsistenza etica ma anche registica. I dialoghi non esistono (i personaggi lobotomizzati articolano poco più che suoni indistinti); gli attori recitano se stessi, la regia ci “stupisce” con molti fuori fuoco, un abuso della steady cam, qualche visione “poetica” del cielo. Il montaggio è il pezzo forte, peccato che di esempi analoghi ne sia piena la storia del cinema.
Ma allora perché? Perché gli europei amano l’America, anche se non sempre ne sostengono i governi. Perché Chirac ha assunto una posizione di chiusura, ma nessuno nega che il cinema americano… Perché è più facile trovare significati laddove non ne esistono, costa meno fatica. Perché anche gli “ignoranti” si ritroveranno in questa pellicola che non richiede loro il benché minimo sforzo. Perché è più facile e comodo non avere ideali a cui dover dar conto, e tanto meno una coscienza. Perché è il mondo che va così…
Miglior Sceneggiatura e Migliore Attrice
LES INVASIONS BARBARES
Regia: Denys Arcand
Sceneggiatura: Denys Arcand
Fotografia: Guy Dufaux
Montaggio: Isabelle Dedieu
Scenografia: François Seguin
Costumi: Denis Sperdoulis
Interpreti: Remy Girad, Stephane Rousseau, Dorothée Berryman, Louise Portal, Dominique Michel, Yves Jacques, Pierre Curzi, Marie-Josée Croze, Marina Hands, Toni Cecchinato, Mitsou Gelinas
Canada – Francia 2003
Seguito ideale de “Il declino dell’impero americano” (1986); di cui riprende alcuni personaggi, il film racconta della malattia e dell’agonia di Remy, cinquantenne libertario e libertino che confessa di avere vissuto ma che, soprattutto, deve prendere commiato da un’esistenza che ancora lo lusinga e lo tenta. Casanova impenitente, amante del vino e della buona tavola, ma anche dell’arte e della cultura, da sempre impegnato a sinistra, ha trascurato puntualmente gli affetti familiari per vivere alla grande o, forse, solo a modo suo. Il figlio, Sébastien, è l’incarnazione del suo opposto e contrario. Lavora con successo nella finanza, è felicemente fidanzato, ha una vita regolarissima ed è un conservatore convinto. I due si ignorano e si detestano cordialmente. Sarà la madre ed ex-moglie, Louise, a implorare il figlio perché l’aiuti a garantire una fine decorosa e il più possibile accettabile a Remy.
Lo spunto biografico che funge felicemente da filo rosso narrativo lungo tutta la pellicola dà adito a una serie di riflessioni talvolta profonde tal altre ludiche ma sempre avvincenti e intelligenti sulla decadenza dell’Occidente. Giustamente premiata la sceneggiatura che si esprime al meglio nella cura dei dialoghi, raffinati e forbiti, ironici e beffardi ma anche teneri e sentimentali. Non è solo un uomo allo specchio, nel momento culminante dell’esistenza, è un’intera società che si interroga sulle proprie manchevolezze e pregiudizi. E sul proprio “barbaro” passato, ormai rimosso. Ma anche sul “barbaro” presente, che è interno alla società stessa, pur essendone nemico, e che non può essere facilmente estirpato, proprio come un tumore allo stato terminale.
Denys Arcand fa sfoggio di grande maestria nel dirigere in maniera impeccabile un vero e proprio coro di attori, tutti ai massimi livelli. La critica più prevedibile sarà quella alla “furbizia”, al tentativo mai celato di accattivare lo spettatore, non risparmiando al pubblico le emozioni del dolore e dei sentimenti. Critica che non abbracciamo, convinti come siamo che sia piuttosto la vita a presentare anche momenti di commiato, con tanto di riappacificazioni, addii ai luoghi del cuore e teneri ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza. Da segnalare anche la citazione e l’omaggio a “Cielo sulla palude”, il film di Augusto Genina con Ines Orsini che interpreta Maria Goretti, sulle cui immagini si stempera la vita. A commento dei titoli di coda, i sinceri e commossi applausi di un pubblico certo avvezzo a visioni di qualità.
THE TULSE LUPER SUITCASE – Part 1 – The Moab Story
di Peter Greenaway
“Forse siamo tutti prigionieri di qualcosa: l’amore, i soldi, il sesso, la fama, le credenze religiose, il potere, l’ambizione, l’avidità, i debiti, un lavoro, un giardino, un cane, gli orari dei treni, un’ipoteca o anche solo il conto del droghiere. Di conseguenza molte prigioni non hanno finestre con le sbarre o una porta chiusa a chiave.”
Tulse Luper è un uomo che fa un’esperienza cardine: la prigione. In 16 paesi del mondo. Dall’esperienza della reclusione, coglierà il fiore. Scriverà libri, disegnerà illustrazioni ma soprattutto riempirà valige. Ritorna l’ossessione matematica di Greenaway e il numero “chiave” del film è il 92: numero atomico dell’uranio. La storia infatti si svolge dal 1928 – anno di scoperta dell’uranio in Colorado – al 1989, la caduta del Muro di Berlino. E 92 sono le valige, 92 i personaggi, 92 gli eventi chiave.
Progetto monster del regista sperimentatore per eccellenza, “The Tulse Luper Suitcase” si articola in tre parti di 120 minuti l’una (considerati i tempi classici) laddove dedicato al cinema. Si tratta infatti di un prodotto multimediale che passerà in televisione, ha un sito ufficiale e più siti ufficiosi, è un Cdrom, un libro e anche e soprattutto un viaggio intorno al mondo.
“Sono arrogante. Come fai a fare l’artista se non sei arrogante?”, a sessantun anni, P. Greenaway non molla la presa e non invecchia. Ci presenta una visione, il suo alter ego, un progetto mastodontico che, soprattutto, mette in crisi l’idea corrente del cinema. Il cinema è morto… direbbe qualcuno. No, non è mai esistito, secondo l’autore. “Stamattina, agli studenti ho detto che il cinema è morto… Adesso dico una cosa che potrà apparire in contraddizione con questa affermazione. Il cinema in quanto cinema non è mai stato, non è mai esistito. Quello che abbiamo visto per 107 anni è stato semplicemente un susseguirsi di testi illustrati. 107 anni di testo illustrato non fanno il cinema. Io non voglio essere un illustratore, voglio essere il creatore originale del mio lavoro. Tutti coloro che fanno film, si chiamino Scorsese o Godard, sanno che il punto di partenza di un film è un testo scritto…”
Il rifiuto del testo come partenza, pittore e architetto, P. Greenaway sperimenta, convinto com’è che sia l’immagine a parlare e non la scrittura. Che la letteratura dovrebbe prendersi cura di sé. Che la televisione potrebbe assumere il ruolo della rappresentazione realistica (vedi i reality show) e lasciare al cinema solo quello creativo e immaginifico. E, infatti, il film è un insieme (anche sovraccarico) di immagini, montate le une sulle altre, sfruttando e splittando lo schermo fino all’inverosimile. Il cinema è colore, musica ma soprattutto immagini e le nuove tecnologie aprono un ulteriore spiraglio interpretativo. Chi vorrà apprendere inediti dettagli della storia, visiterà il sito, “leggerà” il CD-rom.
Usciamo dalla sala, come ebbri, con la sensazione di aver compreso poco (anche perché non tutto ci è stato svelato) ma affascinati e ammirati dal coraggio di un vero autore che ci ha riempito gli occhi di figure e colori, le orecchie di suoni e che ci ha fatto sognare.
Le citazioni sono tratte dal sito www.glispietati.it che ospita un lungo e interessante speciale di Luca Pacilio che comprende anche una intervista all’autore.
Premio Fipresci
PÈRE ET FILS
Regia: Alexander Sokurov
Padre e figlio vivono in un appartamento all’ultimo piano che ha una finestra che affaccia sui tetti. L’assenza della madre ha fatto sì che tra i due si sviluppasse un rapporto forte ed esclusivo, che lambisce l’omosessualità. Il figlio, infatti, rinuncia e perde l’amore della giovane fidanzata in nome dell’attaccamento paterno. Sarà l’arrivo di un altro ragazzo, alla ricerca del proprio padre perduto, a infrangere gli equilibri e a segnare il destino della relazione pericolosa.
Un gioiello dal punto di vista estetico: la ricerca ossessiva dell’inquadratura perfetta, i filtri che colorano l’onirica fotografia, la recitazione che si affida più ai gesti e agli sguardi che allo scarno parlato. Un’opera che si pone al di sopra delle tendenze e delle mode, per diventare “eterna” e sfidare l’aggressione del tempo.
Gran Premio della Giuria e Miglior Attore ai due protagonisti
UZAK
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Interpreti: Muzaffer Ozdemir, Mehmet Emin Toprak
In una Istanbul pressoché irriconoscibile perché grigia e smunta, sopravvive Mahmuf (Muzafer Ozdemir); fotografo che ha perso le proprie speranze una a una nel corso degli anni. Sarà costretto a ospitare un giovane cugino, Yusuf (Mehmet Emin Toprak); in fuga dalla depressione economica che ha colpito la provincia turca e che vorrebbe imbarcarsi su una nave per guadagnarsi da vivere e avere così l’opportunità di girare il mondo. La convivenza fra i due non decolla, Mahmuf uomo solo ormai incapace di condivisione, mal sopporta la presenza di un estraneo fra le quattro mura domestiche, dietro cui si è barricato e grazie a cui esclude l’imprevedibilità della vita.
Se il tema è la solitudine e l’incomunicabilità, tutto ciò ci viene narrato solo ed esclusivamente con le immagini, data la scarna essenzialità dei dialoghi e la totale assenza di didascalia. I colori sono cupi e tetri, l’atmosfera è opprimente, l’azione è quasi del tutto sospesa. Alcune inquadrature sono indimenticabili: una nave rovesciata a metà e coperta dalla neve, Istanbul algida d’inverno, le colline turche che si specchiano in un lago. Ma Mahmuf è in trappola, vittima di se stesso, e preferisce fumare piuttosto che vivere.
Premio della giuria
A CINQ HEURES DE L’APRES-MIDI
Regia : Samira Makhmalbaf
Fotografia: Ebrahim Ghafori
Interpreti: Agheleh Rezaïe, Abdolgani Yousefrazi, Razi Mohebi, Herzieh Amiri
L’Afganistan è stato “liberato”, ma a quale prezzo? La regista iraniana segue da vicino le sorti di una famiglia e di una donna, Noqreh, in particolare. Che ogni giorno indossa il burqa per recarsi a pregare insieme alle altre donne e poi scoprirsi il viso e calzare scarpe con il tacco e andare a scuola. Il regime talebano, fra le altre cose, aveva vietato l’istruzione alle donne che adesso sono desiderose di apprendere e sognano una carriera addirittura presidenziale. Perché le donne apporterebbero pace e comprensione, laddove fino ad adesso c’è stata solo violenza. L’arrivo dei profughi affolla oltre misura le abitazioni già precarie, il padre di Noqreh poi mal sopporta la ventata di novità che ha invaso le città, la vive come una sorte di maledizione e di perdizione. Decide quindi di partire insieme alla figlia e alla nuora che porta con sé un figlio piccolissimo e mal nutrito.
Il film, fino a questo punto, è a tratti divertente. Dico a tratti perché le condizioni di vita sono misere e la povertà costringe i più all’indigenza. Eppure non mancano gli atti di generosità e solidarietà. Ed è soprattutto la dimensione del sogno e anche della giustificata ambizione femminile a pervadere la pellicola di speranza, quella della ricostruzione. Quasi che fosse data a tutti la possibilità di ricominciare, su basi nuove. Ma questa speranza si stempera via via fino a sfociare nella tragedia. Perché non c’è pace e gli aerei americani che sorvolano i territori non portano viveri o medicinali, si limitano a pattugliare il territorio.
Un’interprete di straordinaria espressività e bellezza, una fotografia mozzafiato, una sceneggiatura curata con dialoghi che sempre prevedono la poesia anche a fronte delle macerie. Ma soprattutto un’accusa all’Occidente, colpevole e sbadato, che decide i destini del mondo dimenticando quelli degli uomini.
SWIMMING POOL
Regia: François Ozon
Interpreti : Charlotte Rampling, Ludivine Sagnier, Charles Dance
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Una piscina, immersa nel verde di una villa nel sud della Francia, riuscirà da sola a risvegliare l’ispirazione ormai sopita in una scrittrice di gialli di successo, Sarah Morton (Charlotte Rampling)? È questa la scommessa del suo fedele editore che la invia nella villa, dimenticando (forse colpevolmente?) di informarla che nello stesso periodo sarà presente anche sua figlia Julie. Figlia che, ahimè, non è esattamente il ritratto della virtù: si abbandona ripetutamente a incontri con sconosciuti, beve e mangia di gusto, balla e canta fino a notte alta, non legge ma prende il sole a bordo vasca… Il suo è solo bisogno d’affetto? O forse è la scrittrice repressa, molto britannica, ad aver bisogno di una figlia e, più in generale, di emozioni?
L’intento di Ozon non è l’analisi psicologica dei personaggi, pur ben tratteggiati, bensì un ritorno al cinema-cinema, quello che ci sorprende per l’azione, il cambio repentino di registro, la suspence. Quel rapporto di complicità che si instaura fra la pellicola e lo spettatore e che impedisce a quest’ultimo di distrarsi fino all’ultimo. Il tutto sorretto da un progetto intellettuale credibile: ottima la sceneggiatura e i dialoghi, brave e seducenti entrambe le attrici, all’altezza benché sottotono la regia. Perché è la storia che deve intrigare come, da sempre, nel cinema classico.
Un Certain Regard
Vincitore della sezione
LA MEGLIO GIOVENTÚ
Regia: Marco Tullio Giordana
Interpreti: Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Sonia Bergamasco, Adriana Asti, Fabrizio Gifuni, Lidia Vitale, Maya Samsa, Jasmine Trinca
Un’opera colossale, quella di Giordana, e non poco ambiziosa: narrare la storia d’Italia dal 1966 al 2000 attraverso le vicende di una famiglia e in particolare di due fratelli: Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni); uniti da un profondo legame affettivo eppure diversissimi nel carattere e nell’indole. Il primo solare e positivo, generoso e altruista. Il secondo introverso e cupo, costantemente insoddisfatto di sé e incapace d’amare. Sullo sfondo, scorre la storia italiana: dall’alluvione di Firenze del ’66 alle rivolte studentesche con deriva terrorista, dalla corruzione dilagante degli anni ’80 all’odierno riflusso nel privato. La professione scelta da Nicola, psichiatra, ben si presta a una difesa a oltranza della legge Basaglia e alla denuncia delle condizioni in cui vessavano i malati mentali prima della sua approvazione e applicazione.
“La meglio gioventù”, titolo di una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini, intellettuale da sempre caro al regista, è quella fase felice della vita in cui le speranze sono ancora tutte da realizzare e in cui si può credere di poter dare un contributo reale affinché le cose cambino. Nicola è totalmente proiettato verso l’esterno, sia a livello professionale sia privato. E la sua generosità fa sì che contempli la libertà più per gli altri che per se stesso. Fino a lasciare agli altri anche la facoltà di ledersi. Sarà solo dopo un evento luttuoso, che lo segnerà ma che lo maturerà, a riuscire a intervenire nella vita altrui e a dire anche dei no. In lui la gioventù non si spegne, lungo tutto l’arco dell’esistenza, anche quando i capelli imbiancano. E’ una giovinezza del cuore e dello spirito che lo aiuta ad affrontare la vita con generosità ed entusiasmo. E che gli consente di ricominciare, dopo ogni sconfitta.
Se la prima parte coinvolge e commuove lo spettatore, anche per l’abile intreccio dei vissuti dei numerosi protagonisti, nella seconda la tensione narrativa si allenta, virando dall’epopea storica al prodotto televisivo vero e proprio. Ne è causa l’obiettiva difficoltà di concludere le singole vicende combinandole in un unicum armonico ma anche la ricerca di un finale buonista e positivo a tutti i costi che risulta un po’ fittizio se non posticcio. Lodevole l’intento della ricostruzione storica, fedele e mai faziosa, notevole l’approfondimento psicologico dei protagonisti, ben tratteggiati e magistralmente interpretati. Nettamente superiore, da un punto di vista qualitativo, ad altri prodotti destinati al pubblico televisivo, lascia perplessi la scelta del passaggio in sala. Infatti il film, articolato in due parti di tre ore ciascuna, sarà nei cinema a partire dal 20 giugno, mentre la programmazione televisiva è prevista per l’autunno.
Quinzaine des Réalisateurs
L’ISOLA (Italia)
di Costanza Quatriglia
Ritroviamo in questo promettente esordio di una giovane autrice italiana i paesaggi isolani del nostro Meridione. Siamo sull’isola di Favignana, Teresa è una bambina di dieci anni alle soglie della pubertà, ancora indecisa se rimanere il maschiaccio che è stata o trasformarsi in ragazzina ammaliatrice: l’età della crisalide. Legatissima al fratello maggiore, Turi, che funge da mediatore della figura paterna, severa e distante, lo segue in tutte le avventure che la quotidianità sull’isola offre: la mattanza dei tonni, il parto della mucca, il bagno in mare. L’arrivo di una ragazzina più grande dalla città arricchirà di sogni e di valori i giochi della ormai non più bambina.
Se non abbellito dall’eccellente fotografia di “Respiro”, il film ci presenta con affettuosa partecipazione la realtà quotidiana della vita sull’isola. In effetti, nulla accade né di drammatico né di esaltante. Eppure la vita scorre sotto i nostri occhi, talvolta divertiti tal altra commossi.
LA CHOSE PUBLIQUE (Francia)
di Mathieu Amalric
Narrazione scomposta e sconclusionata fra riprese televisive, cinematografiche e private. Finché è la Breillat a parlare di cinema nel cinema, ci ce la facciamo, in questo caso… preferiamo passare ad altro!
JAMES’ JOURNEY T0 JERUSALEM (Israele)
di Ra’anan Alexandrowicz
Convertito alla cristianità, James, parte da un piccolo villaggio africano per visitare la Terra Santa, Gerusalemme. Al suo arrivo, la prosaicità delle forze dell’ordine israeliane lo costringono alla prigione. Perché davvero “buono”, verrà riscattato da un padroncino locale e dovrà adeguarsi alle regole ormai imperanti. La ricchezza fa davvero la felicità? Lo scopriremo solo vivendo e guardando.
Piccolo film, ma intrigante, giocato sulla buona fede di chi la fede ce l’ha e sulla cattiva fede di chi l’ha persa. Gioiellino etico che ci ricorda che fra il nero e il bianco esistono tante ma tante sfumature.
LE SILENCE DE LA FORET (Repubblica Centraficana, Camerun e Gabon)
Gonaba ha studiato in Francia ma, pieno di speranze, ritorna al paese natale convinto di poter dare un contributo sostanziale affinché le cose cambino. Dopo dieci anni, si rende conto che la corruzione dilaga, la prostituzione pure, il sistema scolastico è al collasso e i pigmei sono trattati come “paria”. Poco più che animali da circo. Compie, quindi, un gesto eroico. Raggiunge e decide di vivere con una tribù pigmea, si innamora, apprende i rudimenti della caccia, diventa padre.
Certamente didascalico, ingenuo nella narrazione e nella regia, il film ci immerge nella condizione del buon selvaggio, alla Rousseau. E non senza ricadute, e positive, per lo spettatore occidentale.
LAS HORAS DEL DIA (Spagna)
di Jaime Rosales
Abel (che è l’altra faccia di Caino) gestisce con scarso entusiasmo un negozio di abbigliamento in un paese alla periferia di Barcellona. E’ fidanzato, ha un amico che sta per sposarsi, la vita sembra scorrere adeguandosi a una non entusiastica normalità. Ma l’irrequietezza e l’insoddisfazione inforcano binari inconsueti e irrazionali fino a sfogare in una passione che è anche “Il talento di Mr. Ripley”. Il film ha i ritmi del vuoto esistenziale che vuole esprimere. In un’esistenza in cui niente ha senso, tutto è equiparabile, anche a livello etico. Ma la noia, quella dello spettatore, è assicurata.
LA GRANDE SEDUCTION (Canada)
Regia: Jean-François Pouliot
Sceneggiatura: Ken Scott
Fotografia: Allen Smith
Musica: Jean-Marie Benoît
Produzione: Max Films
Interpreti: Raymond Bouchard , David Boutin, Benoît Brière, Bruno Planchet
Sainte-Marie-La-Mauderne è un minuscolo villaggio di pescatori, dimenticato da Dio e dagli uomini. Per consentire ai suoi abitanti una vita lavorativa decorosa e attiva, liberandoli così dal giogo del sussidio di disoccupazione, il sindaco decide di fare di tutto perché un’azienda apra uno stabilimento in loco. E’ necessaria però la presenza stabile di un medico, che non c’è. Sarà coinvolto con tutti i mezzi un giovane dottore in carriera, che viene dalla città. Gli abitanti faranno del loro meglio perché si senta a proprio agio e confermi così il contratto per cinque anni.
Adorabile e deliziosa commedia degli inganni e degli equivoci, che ricorda in alcune trovate “Il favoloso mondo di Amélie”, “La grande séduction” è una costante e divertente sorpresa per lo spettatore che si abbandona piacevolmente alla fantasia di una favola moderna. I buoni sentimenti, certo, ma anche le difficoltà del vivere e del sopravvivere del nostro tempo.
LES YEUX SECS (Marocco/Francia)
Di Narjiss Nejjar
Mina è una donna berbera lasciata a marcire in prigione per 25 anni. Una volta uscita, ritorna al paese, accompagnata da un giovane autista di autobus. Ritroverà la figlia, Hala, che è diventata il capo della comunità di donne, dedite alla prostituzione per sopravvivere. Quest’ultima detta dure leggi: niente figli per non consentire un futuro a una comunità segnata dalla vergogna. Ma forse la vita offre più spiragli di speranza.
Troppo lungo e con qualche ingenuità a livello di sceneggiatura, certo non un capolavoro ma “esotico” da molti punti di vista: innanzitutto i paesaggi e i volti dei protagonisti, ma anche la mentalità e la cultura. Feuilleton ma godibile.
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