La follia ci salverà!
Le lugubri ombre verticali e i misteriosi cerchi che emergono dall’oscurità attraversando le prime inquadrature accompagnati da una misteriosa musica da thriller psicologico predispongono lo stato d’animo di chi guarda all’inquietudine e all’attesa. Per lasciarsi catturare completamente dal film è necessario rinunciare alle usuali categorie di tempo e di spazio: il primo è sospeso e il secondo illusorio e artificiale. L’incubo di D’Ambrosi ha, infatti, come palcoscenico un mondo “normodotato” che ha debellato ogni forma di diversità e dove gli scienziati dirigono la comunità. Per salvare i cittadini “normali” dalla noia e dalla depressione, un nugolo di poliziotti tatuati e aggressivi come in una dittatura sudamericana dovranno irrompere nello spazio sereno degli ultimi folli rimasti e rubare il loro “segreto”. Il regista di San Donato milanese da tempo impegnato, anche personalmente, nella ricerca sulle patologie mentali (nel 79’ si è fatto ricoverare volontariamente per due mesi presso un manicomio) ci racconta il paradosso di una società “sana” e normalizzata che appassisce lentamente perché ha perso stimoli e vitalità.
“Non solo teatro ma cinema di qualità”
Per trasmettere le emozioni dei personaggi, D’Ambrosi ha chiamato a raccolta “i suoi” attori chiedendo loro di provare ripetutamente le scene come per prepararsi ad una prima. E il grande lavoro lo ha ripagato con una prova collettiva di grande intensità che rende arduo citare i singoli, anche se è d’obbligo una menzione per la bellezza sofferta e la recitazione essenziale di Greta Scacchi il cui fascino aumenta con il passare del tempo. C’è molto teatro “patologico” nella messa in scena ma anche una sorprendente dinamicità della mdp che, nelle sequenze in cui i tre sono catapultati indietro nella vecchia normalità, si muove decisa circondando letteralmente gli attori e cogliendo ogni loro mutamento espressivo. Le immagini digitali, montate in maniera serrata e accostate per associazione agli inserti onirici, richiamano l’idea di cinema che i surrealisti sperimentarono alla fine degli anni 20’ e rendono in maniera quasi olfattiva la fisicità dei tre folli contrapposta all’asetticità dei medici vestiti come antichi sacerdoti e avvolti da una luce bianca e irreale. Il colore che vediamo caratterizzare ognuna delle “cavie” non è un vezzo di regia ma l’effetto indotto dalle cure farmacologiche a cui gli stessi sono sottoposti. Un film dominato da suoni distorti ed evocativi, da battiti interiori e dall’eco di voci ripetute ossessivamente che rendono continuamente labile il confine tra soggettività e oggettività.
“Che noia essere ordinari”
D’Ambrosi è nemico di una Società che vive ossessionata dalla paura della diversità e si interroga per scoprire cosa c’è dietro alla capacità di adattamento dell’uomo a una normalità meccanica e ripetitiva dove anche l’ostentato equilibrio nasconde l’incapacità e il coraggio di vivere nell’emozione; l’interrogativo si allarga per capire qual’è il segreto delle orecchie sensibili che sentono il ronzio delle mosche e come questo può salvarci dalla noia. Tra citazioni del cinema d’autore e ardite quanto intriganti ellissi narrative, la pellicola crea una discontinuità visiva di grande fascino e l’unico limite emerge nelle scene senza i folli che appaiono un po’ manieristiche. Il divertente finale “cartoons” alla Nichetti sancisce l’esaltazione del gioco e sottolinea il parallelo bambini/folli accomunati da purezza d’animo e ingenuità. Alla fine risuonano lungo i nostri canali uditivi le parole di Felice (!): “A volte si diventa mosche così, senza accorgersene, per distrazione” e siamo tutti convinti che l’unica soluzione sia quella di trasformare il “normale” in mosca, con buona pace di David Cronenberg!
Curiosità: La terribile moglie che istiga alle violenza Franco il pittore è Bedi Moratti che si ritaglia così un riuscito cammeo radical-chic!Tra i medici-tecnocrati è riconoscibile Denny Mendez, Miss Italia 1996
A cura di Raffaele Elia
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