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Gli amici di George Dabliu

Gli amici di George Dabliu

Stupid White Men appare negli Stati Uniti nel 2001, in seguito alla vittoria di George Walker Bush nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente. Prima del tragico 11 settembre (una seconda edizione del 2002 aggiunge una breve postfazione che riguarda quell’avvenimento). Michael Moore
Da allora sono successe tante cose.
Michael Moore ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2002 con il documentario Bowling for Columbine. Un anno dopo, il 23 marzo del 2003, lo stesso film vince il premio Oscar per la sua categoria. Era dal 1969 che un documentario non sbancava i botteghini e insieme ottiene il premio: dai tempi di Woodstock.
Al 23 marzo di quest’anno, Stupid White Men si trovava negli nella lista dei best-seller americani da ben 53 settimane, l’opera di non-fiction più venduta dell’anno.
Il sito internet michaelmoore.com conta una media di 20 milioni di accessi al giorno: più di quello della Casa Bianca.
Dalla stesura del libro, è successo che gli Stati Uniti hanno attaccato l’Irak con il pretesto di trovare e distruggere le armi chimiche in possesso di Saddam Hussein. Non le hanno trovate.
E’ successo che la guerra è stata fortunatamente breve, e Saddam è sparito (e ha raggiunto Osama nel limbo mediatico da cui ogni tanto il fantomatico sceicco mette fuori la testa). Intanto però la popolazione irachena di bombe ne ha viste piovere parecchie. Per quale motivo allora questa guerra? Secondo Moore: so Bush’s buddies can have the oil.
Così gli amici di Bush si pigliano il petrolio.
Lo avevano capito tutti. Ma pochi lo dicono: e in Italia, sennò l’amico americano si offende, e negli Stati Uniti, sennò si è traditori.
Gli amici di Bush: eccoli, gli stupidi uomini bianchi.
Presidente compreso, naturalmente.
Il libro prende spunto dall’indignazione provocata in Moore dalle elezioni presidenziali del 2000; quelle del testa a testa tra Bush Jr e Al Gore, del conteggio dei voti decisivi in Florida, delle schede provenienti (per posta) dai militari all’estero, infine della decisione della Corte Suprema che assegna la vittoria a Bush. L'edizione originaleChe qualcosa di torbido fosse avvenuto in quei giorni era apparso chiaro; ma dalla ricostruzione compiuta da Moore attraverso numerose fonti emerge una serie di maneggi davvero sconvolgente: in pratica, gli “amici” di Bush (petrolieri, industriali, multinazionali) hanno “oliato” a dovere la macchina elettorale, attraverso tante e tali scorrettezze da spingere Moore, ironicamente, ad appellarsi alle Nazioni Unite affinchè ristabiliscano la democrazia violata e pongano fine a quel “colpo di stato, molto, molto americano” che dà titolo al primo capitolo del libro.
Moore, così come in Bowling for Columbine, stupisce per la capacità di utilizzare un tono scanzonato, colloquiale, a fianco di un atteggiamento serio, in cui battute e ironie si ergono sulle spalle di argomentazioni molto valide. L’abbondante bibliografia delle ultime pagine del libro è la prova che anche dove l’autore si lascia trasportare all’invettiva e al sarcasmo, spinto da un vero e proprio furor civile, il valore delle accuse che vengono lanciate è incontestabile, e dunque la voce di Moore suona come coscienza di un’intera nazione; di buona parte di essa, perlomeno. Proprio perché in una società come quella americana le voci non omologate faticano a trovare spazi, e specie di questi tempi qualsiasi tipo di critica è considerato infame indizio di antipatriottismo, lo sdegno di Moore, la sua tensione verso una società migliore, più equa, ha il dovere di farsi sentire al di sopra delle fanfare che accompagnano le bugie della junta petrolifera Bush e dei potenti che essa rappresenta.
Stupid white men, del resto, non è senza difetti: il capitolo centrale, in cui Moore espone più o meno brillantemente le proprie idee per risolvere i contrasti internazionali, se pure ha il pregio di divertire, fa tuttavia perdere concentrazione rispetto a ciò che all’autore preme far conoscere: il paese in cui egli vive. E i problemi di cui è colmo: la disuguaglianza razziale, il degrado del sistema educativo pubblico, la sempre minore tutela dei lavoratori, le contraddizioni della società capitalistica e dei danni devastanti che essa produce. Un sistema guidato da pochi, arroganti uomini bianchi che barricati nelle proprie ville, a bordo di indecenti yacht, vivono nel terrore che la grande massa di diseredati che loro stessi hanno contribuito a impoverire possa privarli dei privilegi in cui mantecano i loro flaccidi corpi di ricchi. Nei luoghi in cui Moore affronta tali argomenti appare chiara la sua sensibilità sociale e il suo innato senso di appartenenza ad un mondo, quello “proletario”, che ancora si trova a lottare per acquisire diritti che dovrebbero essere fondamentali e innegabili. Un bambino su sei negli Stati Uniti vive in condizioni di povertà; forse, allora, qualcosa non funziona in questo paese.
L’ultimo capitolo del libro, aggiunto in seguito all’attentato al World Trade Center, getta un’inquietante ombra sul tragico attentato e sui vantaggi innegabili che esso ha sortito per la junta Bush; il disegno di quest’ultima di plasmare un mondo fatto su misura per lo sfruttamento dei propri interessi è risultato, dopo l’undici settembre, senz’altro più agevole. Ma a questo proposito attendiamo Farhenheit 911, il prossimo documentario di Michael Moore: o della temperatura a cui la libertà prende a bruciare. Un film sullo sfruttamento, da parte di un gruppo di ignobili uomini bianchi, di due torri cadute, e dei tremila che stavano dentro.

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