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cultura dell'immagine e della parola

La festa è finita, gli Amici se ne vanno…

Martedì 27 maggio si è conclusa la seconda edizione di Amici di Maria De Filippi (o “Il Programma Precedentemente Conosciuto Come Saranno Famosi”); con un riscontro presso il pubblico più che apprezzabile: 24,95% di share nonostante la concorrenza dei Carabinieri di Canale 5 e del crossover di Pavarotti & Friends su Raiuno.

L’immagine che rimane negli occhi dello spettatore è lo scoppio di stelle filanti ed entusiasmo sulla vincitrice, portata in trionfo da pubblico e compagni.
Ma, caduti i coriandoli, cosa rimane da dire su questo format?

Rimane la sensazione che questo programma sia (nel bene e nel male) lo specchio più fedele delle tendenze della televisione commerciale contemporanea in Italia.
Si può contestarlo per i contenuti ed i messaggi che veicola, ma non si può non notare l’acume con cui gli autori hanno ideato un meccanismo quasi perfetto per attrarre il proprio pubblico.

La struttura narrativa utilizzata è palesemente quella delle fiabe, così come l’ ha studiata il semiologo francese Greimas.
Un percorso in quattro tappe, in cui l’eroe, cui viene assegnato un compito, acquisisce una competenza che gli consente di realizzare una performance che per dirsi realmente riuscita deve ottenere al termine della narrazione una sanzione, un riconoscimento pubblico.
Su questo schema gli autori hanno innestato una serie di elementi fortemente attrattivi per il target di riferimento del programma (principalmente un pubblico giovane, con possibilità di coinvolgimento anche per le famiglie):

Lo pseudo-voyeurismo del reality show, con le telecamere poste nella scuola che raccontano quello che succede anche al di fuori della prima serata, conferendo il “senso di verità” e la sottile imprevedibilità della “finta diretta”.

Il dualismo delle “sfide”, vissuto in chiave agonistica ma con l’esaltazione dei valori sportivi e del rispetto per l’avversario.

La commozione, le lacrime rigorosamente svelate con inquadrature fisse in primo piano. Il corpo del protagonista che diventa il luogo delle emozioni per lo spettatore.

La polemica da bar, fine a se stessa ed autoalimentantesi, degli spettatori in sala ; un campionario di umanità varia che copre idealmente tutto lo spazio che intercorre tra la commedia e la tragedia.

La ritualità, soprattutto nella sigla d’apertura, un capolavoro di retorica che mescola suggestioni da Libro Cuore e atmosfere alla Rocky IV ; la simbologia evidente durante ogni puntata che si polarizza intorno all’immagine della stella.

L’abilità nel ruolo di “garante” di Maria De Filippi, la rigidità apparentemente più spontanea del panorama televisivo, l’unica in grado di stemperare i momenti in cui l’uso del registro patetico rischia di divenire eccessivo.
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Il risultato è un successo televisivo che rischia di diventare, nel suo piccolo, un fenomeno di costume analogo a quello del “Grande Fratello”.
Ma non c’è fretta nel trarre conclusioni: il pubblico ama la serialità e, che noi lo si voglia o meno, questa “lacrimevole macchina da share” tornerà a riempire il palinsesto del prossimo autunno televisivo…

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