Assassino: sicuramente di quozienti intellettivi
Un’autobiografia non autorizzata: e probabilmente falsa?
Chuck Barris voleva diventare “qualcuno”, giustificare la propria esistenza realizzando qualcosa di speciale. Avere composto una canzone di grande successo (“Palisades Park”, cantata da Freddie “Boom Boom” Cannon); essere l’autore di programmi televisivi di enorme poplarità tra cui “Il gioco delle coppie” non bastava: eccolo allora assassino non convenzionale per la Cia. Approfittando dei viaggi premio offerti ai vincitori delle sue trasmissioni, Chuck, in qualità di accompagnatore, era un sicario perfetto e insospettabile.
Scrive un libro sulla sua vita: “Confessioni di una mente pericolosa”. E racconta tutto.
Chi può negare il contrario? Chi sapeva del “secondo lavoro” di Barris muore, e non per cause naturali; la Cia negherebbe di avere mai avuto il conduttore tra i propri uomini: anche se molti teorici del complotto non rifiuterebbero l’idea dell’agenzia americana quale mandante di omicidi a freddo, in nome della lotta al mostro comunista; tema d’attualità, del resto.
Nessuno può negare: ma se consideriamo Barris un mezzo mitomane, beh, allora neanche lui può provare niente. Ma l’autobiografia non è meno menzognera del romanzo: la letteratura è l’indizio più inaffidabile che ci sia.
Comunque: “Confessioni di una mente pericolosa” segna il debutto di George Clooney dietro la macchina da presa; e l’attore, seppur ispirandosi allo stile del suo amico, e qui produttore, Steven Soderbergh, costruisce un’opera dal taglio non banale; avvalendosi di una particolare scelta di luci, quasi “d’epoca”, dà alle immagini un’impronta simile a quella de “I Tenenbaum” di Wes Anderson; alcune scelte di direzione poi rivelano un certo valore.
Altro aspetto interessante, la sceneggiatura di questo film è firmata Charlie Kaufman, che conferma tutte le sue doti di originalità e di ritmo, e anche le sue debolezze narrative laddove il suddetto ritmo cala, e cioè nella seconda parte: come in tutti gli altri film scritti da lui; come avveniva in “Essere John Malkovich, dunque, o “Adaptation”, l’inizio è fulminanate, davvero godibile; in seguito la trama si ripiega su sé stessa, addirittura si contorce un po’; Kaufman è comunque tra quei pochissimi sceneggiatori hollywoodiani che ogni tanto fa pronunciare ai suoi personaggi una frase che non t’aspetti.
Clooney si ritaglia anche una parte secondaria, ma che lascia il segno: è il membro dell’intelligence che ha notato in Barris l’ombra dell’assassino, il piglio della belva, e tenta di convincerlo a indirizzare quell’indole nell’omicidio di Stato. I paragoni con Cary Grant non mi sembrano assurdi: Clooney ha tutto il fascino e il carisma che da un attore americano potremmo desiderare. Grazie anche a un baffo strategico, ogni volta che egli entra in campo al protagonista, interpretato da Sam Rockwell, non resta che aspettare pazientemente che passi il momento d’ombra.
E dunque, tra passaggi in strette gallerie sotto il muro di Berlino, scambi di persona, vecchie spie stanche di vivere (Rutger Hauer); una velenosa e bruciante dark lady (la sensualissima ed affilata Julia Roberts); questa storia che Chuck Barris ci racconta, se anche fosse la sua storia, e se anche fosse vera, sarebbe comunque l’emblema dell’assunto finale del film: che nella vita, la cosa più difficile è diventare ciò che si vorrebbe essere. Uccidere altri uomini, macellare il quoziente intellettivo con stupidi giochi a premi, sempre di delitti stiamo parlando.
A cura di Mario Bonaldi
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